Vito Ciancimino e i cugini Salvo cadono nella rete

21.05.2013 12:39

 


Vi era un solo argomento che le rivelazioni del padrino Buscetta deliberatamente non toccavano: i legami mafia-politica. Egli non solo ne affermava l’esistenza, ma proprio perché così marcata da generare una sorta di effetto «chi tocca muore», aveva optato per non parlarne ritenendo «…lo Stato non in condizione di sopportare le reazioni che deriverebbero da eventuali mie dichiarazioni su questo argomento…».

Un lato di questo poliedrico fronte, fu però costretto ad affrontarlo, in parte per non perdere credibilità al cospetto di Falcone, ma soprattutto perché questi fu abile a porlo dinanzi ad un sistema di indizi non eludibile. Buscetta fu obbligato a confermare e completare il «quadro probatorio» verso Vito Ciancimino e i cugini Nino e Ignazio Salvo. 
 Ciancimino ex sindaco DC di Palermo nel 1970, costretto alle dimissioni dopo soli tre mesi dalle elezioni, per la massiccia documentazione raccolta dalla Commissione parlamentare antimafia, era da tempo relegato al soggiorno obbligato. La sua carriera si era avviata in veste di assessore ai lavori pubblici nel comune di Palermo, sul finire degli anni ’50, quando Salvo Lima ne era il sindaco.

Fu l’epoca del «Sacco di Palermo», la speculazione edilizia e urbanistica più indiscriminata che la Sicilia di quegli anni ricordi. Nel proseguo ha conservato la sua figura di manovratore dei legami tra politica e mafia. Buscetta lo elencava tra gli uomini d’onore più influenti legato a doppio filo a Riina e Provenzano, ma al momento stretto nella loro morsa. La polizia aveva da poco verificato la sua responsabilità quale riciclatore di denaro sporco verso il Canada. 


I cugini Salvo non erano direttamente affiliati ma per anni furono l’anello primario dei collegamenti mafia politica. La loro società di riscossione tributaria per conto della regione Sicilia, li poneva in una posizione privilegiata. Enormi flussi di denaro scorrevano tra le loro mani, ed i quattrini consentivano potere clientelare, moneta di scambio per ottenere che gli uomini giusti sedessero sulle opportune poltrone, il tutto sotto l’egida della regia mafiosa.


Tre pezzi da 90, tre nuovi inquilini del carcere romano di Rebibbia. Tre grossi pesci caduti nella rete sempre grazie alla riservatezza. Nel corso degli interrogatori, Falcone, Borsellino e Ayala, compresero come soprattutto i cugini Salvo fossero a conoscenza di particolari relativi ad altri procedimenti in corso, in teoria ultra riservati. La fuga di notizie era reale, ma questa volta tamponata grazie anche all’uso di accorgimenti procedurali inconsueti ma leciti. Strumenti che il fronte degli avversari nel Palazzo si affrettò a definire con irosa ma inutile arroganza, «illeciti disciplinari».
Nino Salvo morirà di cancro all’inizio del 1986. Ignazio di morte violenta nel 1992.

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