Via D'Amelio, fantasmi e bugie
21.05.2013 13:19
Per l'eccidio di via D'Amelio non sono bastati tre processi, tutti passati in giudicato, a fare luce sul movente, sugli esecutori materiali, sul luogo dove i killer si sono appostati.
La Corte è pienamente consapevole – è scritto nelle motivazioni della sentenza del terzo processo sulla strage – che la ricostruzione dei fatti che intende offrire è gravemente lacunosa, rimanendo tuttora non identificata una larga parte degli attentatori e dovendosi ancora sciogliere innumerevoli e importanti interrogativi riguardo alle modalità operative seguite dai medesimi. […] Non è agevole individuare le cause di tale stato di cose. […] Certamente, una grave responsabilità va addebitata a quegli imputati coinvolti nella fase esecutiva che, pur avendo deliberato di collaborare con l'autorità giudiziaria, hanno mantenuto un atteggiamento gravemente reticente in ordine a molti aspetti della propria – e altrui – partecipazione alla strage.
Il riferimento è in particolare ai pentiti Salvatore Cancemi e Giovan Battista Ferrante, a cui si aggiunge Vincenzo Scarantino, auto accusati insieme a due conoscenti, del furto di una macchina utilizzata per la strage. La sua testimonianza è alla base delle prime indagini e del primo processo, tuttavia a distanza di parecchi anni i giudici dichiarano che Scaratino ha mentito con il chiaro obiettivo di depistare.
La sua collaborazione – dice la sentenza del Borsellino -ter- ha provato un notevole dispendio di forze investigative ed ha a lungo impegnato gli inquirenti nel gravoso sforzo di discernere le poche verità dalle molte menzogne che hanno infarcito le sue dichiarazioni.
C'è da aggiungere che i due balordi con cui Scaratino avrebbe rubato la macchina sono stati oggetto di pressioni psicologiche e fisiche da parte di alcuni agenti di polizia, per indurli a confessare un reato che con ogni probabilità hanno commesso.
Con il passare del tempo, via D'Amelio sembra affollarsi sempre più di uomini senza volto, di cui rimangono tracce flebili ma significative.
A far emergere per la prima volta la figura di un esterno nell'organizzazione della strage è la moglie del pentito Santino Di Matteo, la quale durante un colloquio (registrato) prova a convincere il marito a tacere su ciò che sa a proposito di via D'Amelio.
«Ricordati della strage Borsellino, dove c'era l'infiltrato», gli dice. Non fidarti dello Stato a cui ti sei consegnato, è il senso di quelle parole.
Il figlio della coppia, Giuseppe, è stato rapito da Giovanni Brusca – e poi strangolato e sciolto nell'acido dopo due anni di sequestro – per costringere al silenzio il neo collaboratore di giustizia. Con le proprie confessioni, Di Matteo aveva dato un importante contributo alla ricostruzione della strage di Capaci e di molte vicende di mafia. Ma la storia dell'infiltrato via D'Amelio non vuole sentire parlare, anzi, nega pure con la moglie di averne fatto cenno.
A confermare la presenza di un elemento estraneo è invece Giovan Battista Ferrante. La fa indirettamente, però: dalle indagini risulta che tra il 18 e 19 luglio 1992 il pentito abbia chiamato quattro volte un cellulare fornitogli da Salvatore Biondino. L'ultima volta che compone quel numero, dice ai giudici, è per segnalare l'arrivo in città di Borsellino e della sua scorta diretta a via D'Amelio. Chi risponde a quel telefono Ferrante non sa dirlo. Eppure il mafioso ne digita il numero quattro volte fra il 18 e 19 luglio. Quando gli investigatori gliene chiedono conto, il pentito risponde di averlo composto per provare il campo. Ma è una balla, che serve a coprire qualcuno. Gli investigatori sostengono che intorno a via D'Amelio fossero presenti con ogni probabilità mafiosi con il compito di segnalare il passaggio del giudice e della scorta, e il secondo da quanti devono azionare il telecomando che darà il via alla strage. Che mafiosi, forse, non sono.
A fornire un contributo importante è giunto nel frattempo un altro pentito, Gaspare Spatuzza. La fa dopo undici anni di carcere duro, mandando definitivamente al macero con le proprie rivelazioni la versione di Scarantino.
Spatuzza si autoaccusa del furto della Fiat 126 utilizzata come autobomba a via D'Amelio. Anche nelle sue dichiarazioni emerge un «uomo senza nome». Il neopentito afferma di aver consegnato ad alcuni picciotti la 126 da imbottire di tritolo, alla presenza di uno sconosciuto che lui ritiene estraneo a Cosa nostra. Da queste asserzioni emerge per prima cosa che Vincenzo Scarantino non solo ha mentito ma è stato istruito a farlo, e in proposito oggi risultano indagati alcuni poliziotti e dirigenti di polizia; in secondo luogo, che neanche Spatuzza sa chi c'era a via D'Amelio. La conseguenza è che viene mandato a revisione il processo a carico del boss Pietro Aglieri, indicato da Scarantino come mandante della strage. Tutto, insomma, ruota intorno a quella 126 rossa.
Le foto e i video del teatro della strage dimostrano che il blocco motore della 126 compare in via D'Amelio solo alle 13 del 20 luglio, il giorno dopo l'eccidio, portando all'inevitabile deduzione che si tratti di una pista prefabbricata.
E se Scarantino è un pentito fasullo, se si è autoaccusato di un furto che non h commesso, come a fatto a rivelare marca, tipologia e nome della proprietaria dell'auto rubata? Segno che qualcuno lo ha istruito in proposito. Oppure che Scarantino ha detto la verità e ad avere un ruolo depistatore sono invece le rivelazioni di Spatuzza. Dopo aver rinvenuto il blocco motore della 126, la polizia mette sotto intercettazione la proprietaria dell'auto arrivando così al piccolo pregiudicato Salvatore Candura, che secondo le indagini in corso viene minacciato perché confessi il furto indicando in Scarantino il mandante.
Nei giorni seguenti alla strage, una telefonata anonima segnala un pezzo di carta in un cestino dei rifiuti vicino a via D'Amelio. Gli inquirenti vanno a recuperarlo e si trovano d'avanti il disegno di un monaco con la barba. Lì per lì nessuno ci capisce niente, ma quando Scarantino viene arrestato, qualcuno si accorge che quel disegno gli si attaglia perfettamente: stessa barba, stessi lineamenti, e per di più l'abito da monaco. Scarantino frequentava una comunità religiosa che prevedeva l'uso del saio durante le cerimonie.
Le nuove indagini hanno mandato in pezzi il mito del gruppo investigativo diretto dal questore Arnaldo La Barbera, nato per dare la caccia agli esecutori delle stragi del '92.
La Procura nissena punta il dito contro quattro poliziotti di quel gruppo. Il sospetto è che abbiano indirizzato le deposizioni di due ex collaboratori di giustizia sulla strage di via D'Amelio. L'inchiesta si allontana sempre più dalla bassa macelleria mafiosa per indirizzarsi verso chi ha gestito le indagini. Nel caso di via D'Amelio, sono state condotte dalla stessa Procura di Caltanisetta diretta da Giovanni Tinebra, con l'ausilio di tre strutture: il Ros, il nucleo del Sisde di Contrada e una squadra di poliziotti diretta da La Barbera e Gioacchino Genchi.
È proprio la squadra di La Barbera e Genchi a orientare subito le indagini verso responsabilità istituzionali. Sotto la lente finisce il Cerisdi, una scuola per manager con sede al Castel Utveggio, dietro cui si nasconde un nucleo del Sisde contattato nei mesi precedenti dai mafiosi Gaetano Scotto e Gaetano Scaduto. Il fratello di Scotto, Pietro, secondo alcune testimonianze sarebbe stato a via D'Amelio prima della strage come tecnico telefonico, per installare una nuova linea nel palazzo dei Borsellino su incarico della Safab, una ditta di costruzioni che nel 2009 finirà coinvoiltain un'inchiesta su appalti di mafia.
Nella sede del Cerisdi – dice Genchi – si trovava una postazione di soggetti già appartenenti all'Alto Commissariato per la lotta alla mafia e poi in forza al Sisde, il servizio segreto civile. Il Sisde, all'epoca, aveva smentito nettamente che quei soggetti fossero appartenenti alla struttura.
La pista però finisce «bruciata» da un'iniziativa di La Barbera. A rivelarlo nel 2003 alla Dia di Caltanisetta è lo stesso Genchi.
Nell'ambito delle indagini curate fra il '92 ed i primi mesi del '93 ricordo che fu accertata la presenza al Castel Utveggio di alcuni soggetti provenienti dall'ex ufficio dell'Alto Commissariato per la lotta alla mafia […]. con mio disappunto il dr. LA BARBERA convocò in ufficio il Prefetto VERGA (direttore del Cerisdi) palesandogli sostanzialmente l'oggetto dell'indagine tanto che, per come mi fu riferito, tali soggetti di lì a poco smobilitarono dal castello.
Dall’esame dei tabulati telefonici viene fuori una fitta rete di contatti tra cellulari clonati da mafiosi, colletti bianchi e uomini dei servizi. Con certezza si può dire che il Sisde ha operato al Castello Utveggio, nonostante abbia più volte smentito la circostanza. Il vecchio numero del Cerisdi, 091/435429, è rimasto in funzione almeno fino al 2003, nonostante la Telecom insistesse che fosse cancellato. A rispondere era il dirigente del Sisde di Palermo.
Oggi Genchi afferma che le sue indagini andavano dritte su Contrada e su appalti dello Stato, sottolineando alcune incredibili coincidenze.
Cosi queste hanno fatto carriere e vediamo ed abbiamo visto in che posti abbiamo trovato queste stesse persone ed anche qualche magistrato. Quel magistrato che fu tanto applaudito anche dalla sinistra giudiziaria, la sinistra di questo paese, quando inopportunamente, devo dire, dal punto di vista strategico, pronunciò a Caltanisetta i nomi di Alfa e Beta (Berlusconi e Dell’Utri), bruciando le indagini su Alfa e Beta, ed oggi è al gabinetto del Presidente del Senato Schifani.Mi riferisco alla dottoressa Anna Maria Palma. Dottoressa Anna Maria Palma, che mi ha pesantemente attaccato, il cui marito è stato nominato responsabile e direttore del Cerisdi, che adesso il Cerisdi se lo sono presi e conquistati. Questa è Palermo, questa è la storia e la verità di questa città, che è bene che il mondo intero sappia. Ognuno si assuma le proprie responsabilità e ognuno si presenti per quello che è.
Nell’estate del 2009, mentre Spatuzza racconta la propia versione dei fatti, Salvatore Riina tira in ballo i servizi segreti. Lo fa attraverso il suo avvocato, il quale aggiunge che il boss avrebbe intenzione di scrivere un memoriale.
«Quella è roba da servizi segreti - dice Riina ai giudici nisseni che lo interrogano - bisogna guardare nel castello, da supra…» Il riferimento è al castello Utveggio, da dove si gode una vista ad ampio raggio del luogo della strage.
20 luglio 1992. Sono passati poco più di dodici ore dall’eccidio.Due agenti della Criminalpol venuti da fuori sono in via D’Amelio. La prima cosa che cercano di capire è dove si siano appostati gli attentatori con il telecomando che ha fatto esplodere l’autobomba. I due escludono subito i palazzi che si affacciano su quel tratto della strada: sono sventrati, se si fossero posizionati li, i Killer si sarebbero esposti a un rischio troppo alto.
Lo sguardo si posa poco più in là, oltre un muro che separa la via da un grande giardino. Gli agenti mettono a fuoco un palazzo di dodici piani appena edificato. Percorrono poco più di cinquanta metri, entrano nello stabile e salgono le scale. Si imbattono nei due costruttori del palazzo, i fratelli Graziano. Si fanno portare nel loro ufficio e abbozzano una sorta di interrogatorio. «Avete visto qualcosa?»
Poi chiedono loro i documenti per un controllo via radio: vogliono sapere se hanno precedenti. Nell’attesa, uno dei poliziotti sale fino alla terrazza, rendendosi subito conto che da li la visuale su via D’Amelio è perfetta. Per terra, nota un mucchio di cicche.
Dalla centrale intanto comunicano che i costruttori sono schedati come mafiosi. Sono due dei sei fratelli Graziano, una progenie di imprenditori edili legati ai Madonia e ai Galatolo. Uno dei fratelli, Angelo, vicino a Salvatore Riina, è scomparso nel 1977 con il metodo della lupara bianca. Ce n’è abbastanza per portarli in centrale e proseguire gli accertamenti, ma sopraggiunge all’improvviso una squadra di poliziotti.
«Colleghi, è tutto a posto. Ce ne occupiamo noi, adesso», dicono ai due agenti della Criminalpol. Che se ne vanno perplessi, fanno ritorno in centrale e stilano comunque un rapporto dettagliato. L’indomani ricevono un ordine di servizio: devono rientrare al comando di origine. Il loro lavoro a Palermo è concluso.
Dei fratelli costruttori qualche mese dopo la strage parlano pentiti del calibro di Gaspare Mutolo e Francesco Marino Mannoia. Secondo quanto dichiara il primo, Angelo Graziano e Vincenzo Galatolo «sorvegliavano» Contrada. Poi Graziano era stato arrestato proprio da Contrada. Mutolo sostiene pure e la versione ha retto fino in cassazione che i due imprenditori avevano messo a disposizione un appartamento per Contrada e uno per il giudice Signorino, pi nel maxiprocesso.
La testimonianza degli agenti della Criminalpol è finita oggi nella nuova inchiesta della procura di Caltanisetta sulla morte di Borsellino e della sua scorta. Per tutti questi anni i due poliziotti hanno creduto che qualcuno avesse vagliato il loro rapporto, che quella pista fosse stata battuta. Invece il rapporto è sparito dalla questura di Palermo.
Le indagini hanno però appurato che nel palazzo, poche ore dopo che gli agenti della Criminalpol si erano allontanati, era arrivato un gruppo di carabinieri. Nella loro relazione risulta tutto a posto, tutto normale. E il palazzo della mafia su via D'Amelio sparisce. Come l'agenda rossa di Paolo Borsellino.
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