Una scossa a trecentosessanta gradi

21.05.2013 12:26

 


Il trauma per la barbara morte del generale Dalla Chiesa, generò una scossa a trecentosessanta gradi. La rabbia della gente fu documentata in mondo visione dal lancio di monetine verso la quasi totalità della delegazione politica presente ai funerali. I familiari si scagliarono senza esitazioni contro la direzione della Democrazia Cristiana, accusandola di aver lasciato solo il neo prefetto di Palermo, nel momento più delicato. Questa una dichiarazione del figlio Nando, rilasciata pochi giorni dopo la tragedia: «Durante la lotta al terrorismo, mio padre era stato abituato ad avere le spalle coperte, ad avere dietro di sé tutti i partiti dell’arco costituzionale, Democrazia Cristiana in testa. Questa volta appena arrivato a Palermo capì, sentì che una parte della DC non solo non lo copriva ma gli era contro».

Lo stesso Dalla Chiesa, in una celebre intervista rilasciata a Giorgio Bocca pochi giorni prima di morire, nell’agosto del ’82, ribadiva: «…la mafia uccide quando si verifica una sorta di combinazione fatale, sei diventato pericoloso, ma sei isolato».

Dalla Chiesa non ricevette mai i poteri speciali che aveva richiesto, e fu vittima di una campagna di stampa che acuì la percezione del suo isolamento. Un distacco così palese e ampio che costituì il viatico per Cosa Nostra a procedere alla sua eliminazione. Riina e i vertici dinanzi a questo scenario, ritennero moderato il rischio derivante da un simile attacco allo Stato. La ricchezza ed il potere acquisiti con i ricavi dalla droga, avevano portato Cosa Nostra a non temerlo, alzando il tiro dei suoi obbiettivi a livelli impensabili solo pochi anni prima.

La reazione del paese si concretizzò nell’immediato con l’uscita dal letargo del Parlamento, che in pochi istanti approvò il disegno di legge La Torre-Rognoni, dormiente alle camere da una eternità. La normativa di contrasto al potere mafioso venne rafforzata, ma soprattutto dopo oltre cento anni dall’unità d’Italia, per il paese divenne un reato penale l’associazione di stampo mafioso. La definizione prevista dalla legge parlava di «un’organizzazione criminale improntata sull’intimidazione sistematica, sull’omertà e sull’infiltrazione nell’economia con i racket estorsivi su base territoriale”.

La riforma legislativa conteneva inoltre la possibilità di confiscare beni ai mafiosi per accertarne la provenienza illecita. Erano frecce acuminate di cui ora il paese disponeva per scagliare alla mafia attacchi più efficaci, per condurla nei tribunali, ma non fu mai lo Stato nel senso più generale e collettivo a tendere la corda dell’arco.

In prima linea, spesso con un ambiguo appoggio politico, rimasero una minoranza di poliziotti e magistrati, sostenuti da pochi esponenti politici, amministratori locali e comuni cittadini.

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