Una «partita truccata»

21.05.2013 12:59

 

Per quale motivo si domanda l’ex magistrato, non si riesce a interpretare la mafia come un avversario da affrontare frontalmente?

In presenza di un qualsiasi antagonista pur se forte, radicato e organizzato, per sconfiggerlo occorre porsi a lui in modo frontale e trasparente, si deve creare una netta distinzione tra la tua e la sua azione. Bisogna fugare ogni ombra, ogni connivenza, ogni possibile comportamento che dia adito a dubbi. Una volta identificato e culturalmente condannato, si devono utilizzare tutte le forze a disposizione per combatterlo. Con il terrorismo è così che andò. All’indomani dell’uccisione di Aldo Moro, lo Stato scelse di compattarsi, concentrare le proprie energie per sradicarlo, e ci riuscì.

Nei confronti della lotta alla mafia questo non è mai avvenuto. Magari in più di una occasione si è andati vicini all’obbiettivo, ma è sempre mancata l’assoluta unione d’intenti, e soprattutto, la capacità di porsi a lei in modo frontale, di annullare quelle zone d’ombra e di contiguità tra la sua rete organizzativa e alcuni apparati dello Stato.

Per illustrare questo aspetto Ayala utilizza una metafora azzeccata, una allegoria dall’acre sapore e ancora oggi tristemente attuale: «Immaginiamo una partita di calcio, le istituzioni da una parte, l’avversario dall’altra. Le squadre sono ben definite e riconoscibili senza difficoltà. La partita è regolare. Contro i terroristi avvenne questo, fini come doveva finire, vista la soverchiante forza della squadra-Stato. La partita con la Mafia non è stata giocata sul serio, i colori delle maglie si confondono. Il pubblico non è in condizione di seguire l’incontro se vede giocatori che dovrebbero stare da una parte schierarsi dall’altra e viceversa. Con alle spalle quello che dovrebbe essere il tuo avversario che richiede di passargli la palla come è possibile giocare? La partita è truccata!».

I nomi di chi nei decenni si è macchiato di collusione è giusto vengano additati, condannati, isolati, ma non è una questione di singoli o di gruppi. Pur in loro assenza, Ayala sostiene come altri ne avrebbero preso il posto, magari con esiti ancora più nefasti. Si perché, se nella partita a cui prima si accennava, ripetutamente negli anni, scopri giocatori che dovevano militare nella squadra-stato, vestire la casacca mafiosa e viceversa, la responsabilità è da ricercare nella non volontà politica del sistema paese. Politici locali e nazionali, che per anni stringono rapporti con uomini di affari in odore di mafia, nascondendosi dietro alla foglia di fico della presunta innocenza fino a sentenza in giudicato del loro interlocutore. E questi, beneficiando del loro appoggio, attraverso la intimidazione esercitata dal braccio armato mafioso, alterano il normale corso delle attività economica di intere regioni.

In un paese come il nostro, che in pratica affida ai soli giudici quando non li osteggia, il compito di combattere la mafia, una politica così priva di alcuna coscienza morale, cede via libera ad un continuo interscambio di ruoli alimentato e strutturato in svariate forme di connivenza, ma tutte inserite nel medesimo circolo vizioso: affari e denaro in cambio di voti che creano potere, con il quale il politico di turno in testa alla corrente che ne ha beneficiato, continuerà ad ampliare il raggio delle opportunità economiche dei propri referenti territoriali.

Accade così che appalti pubblici e privati di settori come edilizia e sanità, attività commerciali di ogni campo, transazioni finanziarie e bancarie, divengano truccate come la famosa partita, perché disciplinate da un sistema che droga le regole del mercato a favore di chi si allinea alle connivenze. Gli onesti ne rimangono non solo esclusi, ma finiscono vessati da minacce e violenza, destinati in larga parte a piegarsi, partire o morire.

Se per un solo istante sognassimo invece una realtà dove lo Stato, messa in campo la sua potenziale e soverchiante forza, decidesse di amputare ogni terminale che conduca a tali connivenze, per fare piazza pulita di ogni area ristagnante di consolidato e antico malaffare, la mafia si troverebbe incapace ad esercitare il suo potere perché costretta a giocare l’incontro in un campionato dove le regole del gioco godrebbero del giudizio di un vero arbitro. Ma non solo.

Il mafioso si troverebbe isolato dal resto della società, sprovvisto di appoggi, e vista la sua natura tendenzialmente vigliacca, storicamente protesa ad attaccare in gruppo i singoli, forse sarebbe indotto a guardarsi altrove.

Trattasi di un sogno, e come tale libero da catene, ma sforzandosi di conservare un pratico realismo, e pur consapevoli delle difficoltà che rimarrebbero nell’estirpare da una terra un cancro così radicato, non vi sono confini all’energia propulsiva che la legalità è in grado di fornire alla gente perbene, se posta nelle condizioni di scegliere in libertà del proprio lavoro e della vita.  

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