Una guerra sottovalutata

21.05.2013 12:10

 


Nello scacchiere dei vertici di Cosa nostra quindi si delineava un fronte composto da Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo, palermitani, con l’appoggio esterno di Badalamenti. Questi erano ancora i boss più potenti in seno alla mafia, con una disponibilità economica pressoché illimitata grazie al traffico di stupefacenti. Essi erano i capi famiglia con i contatti oltre oceano e in grado di garantirsi grazie al denaro, importanti legami con il potere politico locale e nazionale, nonché agganci con la massoneria. 
 Sull’altro fronte i corleonesi Totò Riina e Bernardo Provenzano, giovani, affamati, spietati e risoluti. Economicamente meno influenti, e tagliati fuori dai traffici che garantivano gli introiti maggiori, furono però in grado di circondarsi con il terrore e con il prestigio e all’oscuro dagli altri capi, di un vero esercito composto da altrettanto feroci killer, tra cui quel Giovanni Brusca arrestato molti anni dopo per aver premuto il telecomando nella strage di Capaci.

Il «Papa» Michele Greco, numero uno del tempo non solo scelse di non schierarsi apertamente, ma nel linguaggio in codice mafioso optò per non opporsi all’attacco di Riina. Greco e Riina racchiusero nelle loro marcate diversità, i due lati di quella stessa genetica medaglia mafiosa: il primo regalava all’altro il prestigio dato dalla benedizione di un uomo d’onore dal carisma di antica memoria, il secondo al primo l’appoggio e la protezione di una delle belve più sanguinarie mai cresciute in seno a Cosa Nostra. Dinanzi alla carneficina che si svolgerà sotto gli occhi di tutti, il «Papa» allargò le braccia come un paziente zio appena infastidito di fronte al bisticcio dei suoi vivaci nipotini.

Nell’universo di Cosa Nostra un simile rovente quadro, portò una miriade di figure di spicco o secondo piano a schierarsi per una o l’altra parte. Per comprendere a pieno quanto temuta fosse la fazione corleonese da alcuni di questi uomini d’onore, basti pensare che una figura di rilievo della sponda palermitana come Giuseppe Di Cristina, in preda al terrore decise di giocare d’anticipo la carta del collaboratore di giustizia nel tentativo di far arrestare Riina e Provenzano per salvarsi la vita.

Egli nel 1978 denunciò ai carabinieri la progressiva e minacciosa scalata di «U curtu» e «U Tratturi», detti «Le Bestie», i quali secondo la sua testimonianza e quella di altri informatori, si erano già resi responsabili di almeno 40 omicidi.

Delle famiglie corleonesi descrisse organigramma e obbiettivi, nonché il loro determinante ruolo nel omicidio del capitano Russo. Rivelò un fiume inarrestabile d’informazioni, in preda al panico, rendendo quasi impossibile il lavoro di chi doveva verbalizzare le deposizioni. Di Cristina era un boss a tutti gli effetti: gestiva traffico di stupefacenti e costituiva uno dei punti di riferimento della DC siciliana. Il suo azzardo non gli valse la sopravvivenza, perché nel lasso di tempo in cui gli investigatori cercavano i riscontri alle sue dichiarazioni, venne freddato nel territorio di Inzerillo.

La magistratura non si mosse, ignorando persino il messaggio di palese sfida insito nel luogo dove Di Cristina venne assassinato. Al suo funerale parteciparono oltre settemila persone, tra cui politici e importanti uomini d’affari, tutti commossi e allarmati.
Persino Tommaso Buscetta che nel 1980 godeva del regime di semilibertà, dopo l’arresto in Brasile del 1972 e l’estradizione in Italia del 1977, fu avvicinato dal fronte palermitano per unirsi a loro. Egli intuì la pericolosità del momento e nel gennaio del 1981 decise di fuggire ancora in Sud America nuovamente latitante.


Bontate ed Inzerillo nel frattempo, vivevano annegati in una tale faraonica ricchezza da non riuscire a scorgere il cataclisma che stava per abbattersi su di loro.
Una cecità che avrebbero pagato a caro prezzo.

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