Un nuovo scenario tra Stato e mafia

21.05.2013 13:12

 

L’esito della sentenza del 31 gennaio era destinato a disegnare un nuovo rapporto di forze tra lo Stato e la mafia. Lo scenario che si andava delineando poneva Totò Riina in una condizione di maggiore difficoltà. Egli aveva assunto impegni gravosi verso l’organizzazione che guidava, ed in ambito mafioso persino una sanguinosa dittatura come quella che il capo dei capi impose in seno a Cosa nostra, poteva vacillare se venivano meno le condizioni in grado di assicurarle introiti e protezioni. Riina aveva fornito garanzie che i magistrati siciliani sarebbero stati imbrigliati, e se i metodi tradizionali quali intimidazione e corruzione non avessero raggiunto l’obbiettivo in pieno, l’opera sarebbe stata ultimata dalle manovre degli amici in Parlamento.

La Cassazione aveva fornito una risposta diversa dalle attese e ora si era originato un serio problema. Per la prima volta dal dopoguerra si registrava uno scollegamento tra i vertici mafiosi e la direzione della DC, una sorta di aspra crisi diplomatica tra le due istituzioni più potenti del paese. La strategia di inaudita violenza messa in campo dai corleonesi, costituita da una lunga serie di magistrati, poliziotti, carabinieri, giornalisti assassinati, aveva assottigliato in modo esponenziale il numero dei politici disposti ad esporsi in loro favore.

Era cambiata l’aria, e sostenere Cosa Nostra anche se in forma più o meno mascherata, equivaleva al rischio di compromettere carriera e potere. Proprio ora che a Riina servivano appoggi ben più consistenti della consueta gamma di favori e protezioni, ma una azione politica in grado di invertire la brusca svolta legislativa imposta dall’antimafia, le connessioni alto locate sembravano girargli le spalle. Questo problema si acuì nella fase in cui Falcone si trasferì a Roma. I vertici mafiosi contavano sulla capacità di impantanarlo nelle melme di quella politica così abilmente articolata dagli uomini giusti, ma quando presero atto di come il giudice continuasse imperterrito a conseguire i risultati prefissati al Ministero di Giustizia, l’allarme scattò.

Nell’arco di poche settimane il nemico numero uno di Cosa Nostra riuscì nell’impresa di inanellare una massiccia serie di provvedimenti legislativi in grado di aumentare il numero delle frecce nella faretra dell’antimafia. Venne approvata una riforma in grado di ostacolare molto più robustamente il riciclaggio di denaro sporco; furono introdotte norme che consentivano l’uso delle intercettazioni telefoniche ed ambientali nelle inchieste di mafia; si fornirono al governo in carica i poteri necessari per procedere allo scioglimento delle giunte comunali ove fosse accertata l’infiltrazione della criminalità organizzata.

Furono in molti in seno a Cosa Nostra, a ritenere tutto questo non più sopportabile, ma se Riina fu senza altro tra coloro che impose con forza l’esacerbazione della violenza mafiosa, le condizioni che condussero alla imminente stagione stragista furono il frutto di una serie di contingenze non circoscrivibili alla sola Sicilia.

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