Tutto tace all'apparenza
21.05.2013 11:53
Furono anni terribili. Anni di morte e di paura. Le vittime, tra i dilaniati dal tritolo fascista o i caduti e gambizzati dal fuoco terrorista, si contarono a decine. Centinaia furono i feriti. Mogli, mariti, figli, furono costretti a proseguire la loro esistenza orfani di un caro strappato alla vita. Innocenti e inconsapevoli martiri di una violenza cieca e vile, che negli attentati stragisti, optò in modo premeditato di colpire a caso nel mucchio; o uomini che a vario titolo divennero il bersaglio di menti degenerate, convinte con le loro sentenze di morte di poter instaurare un nuovo ordine delle cose.
I parenti dei caduti di questa guerra ufficiosa, hanno deciso negli anni di riunirsi in una associazione, ma non è stata una scelta spontanea o mossa da fini speculativi. E’ divenuta una amara, dolorosa e triste necessità. In un duro ma bellissimo libro, “I silenzi degli innocenti”, di Giovanni Fasanella e Antonella Grippo ( BUR 2006), alcuni dei familiari delle vittime di stragi e terrorismo, prendono la parola a nome di tutti per invocare una giustizia negata, per affermare una verità occultata e messa sotto silenzio. Parole cariche di rabbia, delusione, disgusto. A chi domanda loro se sono pronti a perdonare gli assassini, molti rispondono che prima dovrebbero conoscere i nomi di chi dovrebbero perdonare. Pretendono di poter chiudere una ferita che ancora sanguina, perché la maggioranza di loro a distanza di decenni, non conosce i colpevoli dei crimini che gli hanno sconvolto l’esistenza. Altri hanno assistito alla prematura scarcerazione dei condannati, a loro sospette evasioni, a estradizioni mancate da paesi vicini. Alcuni di questi personaggi ha occupato nel tempo incarichi di prestigio in ambito politico, culturale, economico, apparendo di frequente sui media, senza il minimo accenno ad una richiesta di perdono, ad un pentimento, o ad un giudizio critico espresso al riguardo delle azioni commesse in quegli anni.
I racconti dei familiari o dei sopravvissuti, narrano dei tanti procedimenti penali sospesi, poi ripresi, infine annullati. Sentenze di colpevolezza in primo grado, ribaltate in assoluzione piena al termine dei successivi gradi di giudizio. Episodi oscuri nella conduzione delle indagini. Opere di palesi insabbiamenti, di occultamento della verità, di lacune investigative troppo evidenti per non apparire intenzionali. Di tutto questo, i membri dell’associazione incolpano in primis lo Stato, le Istituzioni, gli uomini che le hanno rappresentate. Dai parenti di chi ha perso la vita in Piazza Fontana, sull’Italicus, a Bologna, in servizio tra le forze dell’ordine, nella magistratura, nelle file di politici, giornalisti, sindacalisti, o di chi era dietro al bancone della propria macelleria, una unica voce ricorrente: lo Stato ha contribuito che la verità su quanto accadde in quegli anni non emergesse, perché troppe le figure coinvolte che ancora oggi vestono ruoli di potere. Una enorme pietra tombale sul passato con inciso a chiare lettere la dicitura «Segreto di Stato».
Stragi, omicidi, ferimenti, inseriti in un contesto più ampio, dove terrorismo nero e rosso, furono il braccio di una occulta politica collusa a servizi segreti, massoni, mafiosi, forze straniere, tutti impegnati a deviare il corso naturale della democrazia. Ne sono tutti convinti, perché loro più di chiunque altro, sono stati testimoni di quanto nel silenzio è avvenuto dietro le quinte. Silenzio si, perché anche verso la stampa e gli organi d’informazione, lanciano un atto d’accusa pesante e diretto. Molto e troppo spesso, al guinzaglio delle lobby di potere o alla ricerca di quel consenso commerciale che poco si sposa con l’essere controcorrente, la categoria ha generalmente assecondato le teorie ufficiali senza scavare nel profondo. E’ venuta meno quella fondamentale azione di vigilanza e di ricerca della verità, che il giornalismo d’inchiesta doveva esercitare in modo esteso, lasciando a pochi coraggiosi professionisti l’arduo compito di scontrarsi con un muro di gomma.
Al posto di quella giustizia e verità indispensabili per voltare pagina, consentendo ad un paese quella necessaria resa dei conti con il suo passato per costruire con trasparenza il proprio futuro, solo ombre e silenzi.
Anche il «caso Moro» rimane tuttora una delle tante pagine oscure della nostra storia democratica, sulla quale gravano ombre mai rischiarate. La scelta dei tempi del suo rapimento (casualmente alla vigilia del possibile ingresso del PCI come forza di Governo), le incertezze investigative durante la sua prigionia (l’appartamento in cui Moro fu custodito per tanti giorni, venne più volte solo sfiorato dagli inquirenti), fino ad una inflessibilità nelle trattative mai ripetuta in seguito, costituiscono le tessere smarrite di un puzzle che ancora oggi per molti, non doveva prevedere la liberazione in vita dello statista democristiano. Una tesi audace, pericolosa, e respinta con forza da chi quei giorni vestiva le cariche di potere, ma che se trovasse un giorno riscontro, relegherebbe le Brigate Rosse quale semplice braccio al servizio di menti operanti forse non solo nel nostro continente.
Una data quella del 9 maggio 1978, che come vedremo tra breve registrò un altro triste evento. Un altro corpo o ciò che ne rimaneva, venne rinvenuto a Cinisi, un paese sulla costa occidentale della Sicilia. Un avvenimento di cronaca in apparenza marginale, sovrastato dal fragore suscitato dalla tragica conclusione del rapimento Moro. Eppure, dietro a quel ritrovamento, si celava una delle storie di lotta alla mafia più toccanti e uniche, in grado negli anni che verranno, di elevarsi a simbolo per l’intero paese.
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