Traghettamenti: dalla Prima alla Seconda repubblica
21.05.2013 13:27
Cosa nostra avrebbe stretto nel gennaio 1994, un accordo con un nuovo partito politico, un infiltrato ne parla perciò al colonnello Riccio.
Circa un mese e mezzo prima (nelle prime due settimane del gennaio 1994) scrive Riccio una relazione alla Dia i «palermitani» avevano indetto una riunione ristretta nella quale avevano partecipato anche Aldo ERCOLANO ed il suo braccio destro Eugenio GALEA. I «palermitani» a loro volta avevano inviato un loro rappresentante non noto alle forze dell’ordine e quindi insospettabile. Nella riunione era stato deciso che:
tutti gli appartenenti alle varie organizzazioni mafiose del territorio nazionale avrebbero dovuto votare «Forza Italia». In seguito ogni famiglia avrebbe ricevuto le indicazioni del candidato su cui sarebbero dovuti confluire i voti di preferenza;
ogni «famiglia» in questo periodo pre-elettorale, avrebbe dovuto risolvere i vari problemi di organizzazione interna in modo che in un prossimo futuro, dopo le elezioni, ad una nuova riunione si presentassero le varie famiglie con una precisa identità, pronte ad operare nell’ottica comune a tutta «Cosa Nostra». Di conseguenza ogni struttura avrebbe dovuto nominare un unico responsabile regionale;
le varie «famiglie» dovevano ridurre al minimo il fenomeno delle estorsioni per non esporsi alla reazione dello Stato particolarmente sensibile a tale attività delinquenziale (a conferma di ciò la fonte riferiva che il noto mafioso CAVALLO era stato bloccato da esponenti di «Cosa Nostra» mentre stava attuando un’estorsione in provincia di Gela in danno del proprietario di alcuni silos di grano);
in riferimento alla disposizione di votare «Forza Italia», i sopra menzionati mafiosi gli avevano fatto chiaramente comprendere che i vertici «palermitani» avevano stabilito un contratto con un esponente insospettabile di alto livello appartenente all’entourage di BERLUSCONI. Questi, in cambio del loro appoggio, aveva garantito normative di legge a favore degli inquisiti appartenenti alle varie «famiglie mafiose» nonché future coperture per lo sviluppo dei loro interessi economici quali appalti, finanziamenti statali,ecc.;
tale strategia era nota alla luce del comportamento che aveva tenuto l’Onorevole Leoluca ORLANDO il quale, in un primo momento aveva cercato ed avuto l’appoggio della mafia, poi una volta raggiunti i suoi scopi elettorali l’aveva duramente perseguita rinnegando ogni intesa.
Dai racconti di Ilardo appare evidente che dopo l'arresto di Riina sia Provenzano a trattare con lo Stato, ma con modalità diverse. In questa strategia – afferma Oriente – Cosa nostra è pronta anche a fare un partito[...]. Provenzano ci dice che le promesse che gli hanno fatto saranno mantenute, che lui è sicuro. Provenzano lo ha detto chiaro a Ilardo durante il summit di Mezzojuso: «Per sistemare tutto ci vogliono cinque-sette anni». Don Binu spiega di aver discusso con degli interlocutori di obiettivi precisi. Qualche anno più tardi Giuffré li ricorderà uno per uno. Oltre al discorso dei beni – dichiarerà il pentito – oltre a un alleggerimento dei processi, oltre a un alleggerimento della pressione delle forze dell'ordine, un altro elemento importante che Binu ha messo sul tavolo è la revisione dei processi.
Ecco l'altro papello, quello di Provenzano, un vero e proprio programma politico che nel febbraio 1994, «soffiato» da Luigi Ilardo, finisce nelle agende del colonnello Riccio.
Amnistia di cinque anni. Indulto di tre. Erano Commissione Giustizia. Ora dovrebbe farla il nuovo governo. Quelli di Forza Italia hanno promesso che in caso di vittoria entro 6 mesi regoleranno ogni cosa a loro favore. […] Provenzano molto cambiato, parla di pace sintomo di debolezza. Spera in Forza Italia fra sette/cinque anni tutto dovrebbe ritornare un po' come prima.Andranno contro il partito o i partiti dei magistrati, la gente non ne può più, mancano i lavori delle grandi aziende c’è solo repressione lotta alla mafia e nient’altro in alternativa protesta operaia e manifestazioni destinate a crescere, aspettando nuovo partito o schieramento.
La mafia insomma dopo avere ponderato con cura le garanzie ricevute, sceglie e si mobilita. E decide di votare Forza Italia.
Forza Italia non l’abbiamo fatta salire noi – ammetterà Nino Giuffré - il popolo era stufo della DC e ha trovato in Forza Italia un'ancora a cui afferrarsi. E noi, furbi, abbiamo cercato di prendere la palla al balzo. Tutti Forza Italia. [...] Vi sono state due fasi. Quella dell’acquisizione delle «garanzie» e quella della ricerca dei referenti «giusti» sul territorio per le varie elezioni, e cioè candidati apparentemente «puliti» non dovevano essere sotto inchiesta della magistratura, e quindi non potevano avere alcun timore a portare avanti la politica che interessava a Cosa Nostra.
Uno spostamento rilevante di voti da un partito all’altro la mafia lo ha già attuato qualche tempo prima. Diverse sentenze raccontano che alla metà degli anni ottanta Riina orina ai suoi di cambiare cavallo e votare il Partito socialista Italiano alle elezioni regionali e alle politiche. L’obbiettivo è dare un segnale, una lezione alla Dc. Troppe scelte non sono piaciute al boss: l’impegno di alcuni ministri democristiani per la celebrazione del maxiprocesso e l’uscita di scena di Vito Ciancimino, per esempio.
Nel corso delle politiche del 1987 il segnale arriva chiaro e forte: la mafia vota socialista. A Palermo i Psi prende il sedici per cento, mentre nelle zone ad alta densità mafiosa come il quartiere Brancaccio arriva a circa il venti per cento. Il voto avviene mentre Cosa Nostra è giudicata per la prima volta come associazione criminale durante il maxiprocesso del pool antimafia, contro il quale tuonano tanti garantisti. Tra questi c’è il socialista Claudio Martelli, giovane, intelligente, molto «laico» e «attenzionato» dai boss. Secondo alcuni pentiti, Riina avvicina il Psi tramite esponenti del mondo imprenditoriale. Proprio nel seggio dell’Ucciardone Martelli sarà il politico più votato. In precedenza il leader radicale Marco Pannella aveva offerto alcuni pezzi da novanta come Michele Greco e Luciano Leggio la tessera del partito. Gesti che con il garantirismo non hanno niente a che vedere.
Mentre si andava avanti con la Dc – racconta Ilardo a proposito del patto con il Psi - in quel periodo erano i socialisti quelli che erano entrati nelle garanzie di «Cosa Nostra», in particolar modo il gruppo legato a Martelli, per quanto concerne la zona orientale di Palermo, e ANDO su Catania, dovevano essere quelli a dovere sistemare i problemi della giustizia in Italia, quelli che avevano preso l’impegno ben preciso, certo non è stato Martelli in prima persona a parlare con…. Però il gruppo era quello là, che facevano capo a lui e quindi di riflesso a CRAXI. […] poi mi fu raccontato pure, mentre mi trovavo all’Ucciardone, nell’elezione dell’87 a Catania, Salvo ANDO ebbe degli incontri diretti con ERCOLANO, ed una volta SANTAPAOLA, in prima persona. Lui chiese apertamente l’intervento di «Cosa Nostra», lui… non so se sapeva se … che «Cosa Nostra» esisteva, ma chiese l’impegno diretto del gruppo di SANTAPAOLA a portare avanti, a fargli avere i voti che poi avrebbero pensato a sistemare un po’ le cose per tutti questi latitanti grossi, per vedere come potere.. Come sanatoria..’na cosa... parole, chiacchiere. So che l’incontro c’è stato, mi è stato detto che l’incontro avvenne negli uffici dell’impresa GRACI, questo non lo so… però questo lo saputo.
Dicono le sentenze che quel voto, quella prima vistosa crepa nel patto decennale tra partito cattolico e mafia inneschi un meccanismo che in pochi anni porterà alle stragi.
L’impresa tra la mafia e il Psi - stando ancora a Ilardo e come riportato nel rapporto di Riccio - nasceva intorno al 1985, anno in cui il partito aumentava vertiginosamente le preferenze nella regione Sicilia. Tale accordo trovava suggello con l’attentato esguito da esponenti di «Cosa Nostra» al giudice Carlo PALERMO, su richiesta dei vertici del Psi. Carlo Palermo arriva a Trapani nel febbraio 1985. Proviene da Trento, dove ha appena chiuso un’inchiesta monstre su traffico d’armi e droga: un’indagine complicata che disegna una sorta di sistema criminale composto da esponenti mafiosi, servizi segreti di mezzo mondo, affaristi e finanzieri, e che «struscia» alcuni esponenti del Psi. I risultati dell’inchiesta finiscono nell’archivio della commissione che indaga sulla P2, ma pochi li hanno letti, perché lasciano intravedere «l’antro della bestia», e mostrano come sono finanziate alcune carriere imprenditoriali: con armi e droga.
Pizzolungo, borgo marinaro di Trapani, 2 aprile 1985. Sono passate da poco le 8.30 del mattino quando un’ autobomba esplode sulla litoranea. L’obiettivo è il magistrato Palermo con la scorta, che solo per caso si salvano. A morire travolti dalla deflagrazione sono invece una donna di trent’anni, Barbara Asta, e i figli gemelli di sei anni, Salvatore e Giuseppe. Un primo processo per l’eccidio vede sul banco degli imputati alcuni trafficanti di droga, ma si conclude con l’assoluzione. Dieci anni dopo, dei collaboratori di giustizia raccontano che la strage è stata voluta da Riina dal boss trapanese Vincenzo Virga. Finiscono entrambi condannati, ma il contesto e il movente dell’azione ancora oggi non sono chiari.
Il giudice Palermo aveva identificato una società, la Kintex, attiva nel settore della intermediazione di armi, che utilizzava per gli sbarchi in Sicilia un’anonima ditta di trasporto pesce: la Stella d’Oriente di Mazara del Vallo. I fondatori della stella d’Oriente, secondo le indagini, erano persone «note agli uffici»: Totò Riina, Giuseppe Mandalari, massone e uomo vicino alla mafia, e Mariano Agate, altro boss massone. Tra i soci risultava anche il padre dell’ultimo grande latitante Matteo Messina Denaro. Si tratta di traffico d’armi “autorizzato” che impegna le imbarcazioni dei mafiosi.
Alla fine del’ 91 Riina continua dunque a lavorare al patto. Annuncia ai suoi di avere avuto assicurazioni che sarebbe nato un nuovo partito di colletti bianchi e massoni, con l’obbiettivo di dividere l’Italia in tre stati federali: Nord, Centro e Sud. «Cosa Nostra si farà Stato», afferma sfregandosi le mani.
E’ un vecchio pallino dei mafiosi quello di fare della Sicilia uno stato, che cresce in maniera esponenziale nelle teste dei boss già all’inizio degli anni Novanta, quando referenti politici divengono sempre meno disponibili e comincia a farsi largo il fenomeno della Lega Nord. L’idea di «essere padroni in casa propria» i mafiosi la ritengono praticabile, e provano a seguire le orme di chi da tempo propugna l’idea di uno stato federale.
Gianfranco Miglio è un professore della Cattolica di Milano, un esperto di diritto. Nei primi anni novanta si avvicina alla Lega Nord, di cui per un periodo diventa l’ideologo. Da decenni ha in testa di dividere l’Italia in tre macroregioni, e per il Sud ha idee precise che manifesta il 20 marzo 1999 in un intervista al «Giornale», nella quale afferma di essere favorevole al mantenimento di mafia e ‘ndrangheta.
Il Sud deve darsi uno statuto poggiante sulle personalità del comando. Che cos’è la mafia? Potere personale, spinto fino al delitto, Io non voglio ridurre il Meridione al modello europeo, sarebbe un’assurdità. C’è anche un clientelismo buono che determina crescita economica. Insomma, bisogna partire dal concetto che alcune manifestazioni tipiche del Sud hanno bisogno di essere costituzionalizzate.
Miglio racconta anche degli stretti rapporti coltivati con Giulio Andreotti alla vigilia di Tangentopoli e delle stragi. L’obiettivo del professore era di far appoggiare dalla Lega l’ascesa al Quirinale del politico romano, in cambio di un impegno per la riforma federalista.
Quella di Miglio potrebbe sembrare una semplice provocazione, non fosse che in quegli anni le stesse cose le stanno più o meno pensando anche Totò Riina e Licio Gelli.
Il primo a parlarne d'avanti alla commissione antimafia è Leonardo Messina, il 4 dicembre 1992.
Molti degli uomini d’onore, cioè quelli che riescono a diventare dei capi, appartengono alla massoneria. [...] Perché è nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso da quello punitivo che ha Cosa Nostra.
Poi il collaboratore di giustizia entra nei dettagli e parla di un comizio di Bossi a Catania.
Mi trovai a conversare con il Miccichè, il potente ed il Monachino [tre uomini di Cosa Nostra, nda], il discorso cadde sull’on. Bossi della Lega Nord, che poco tempo prima era andato a Catania. Io, che allora consideravo Bossi un «nemico della Sicilia», dissi: «Perché un’altra volta che viene qua non l’ammazziamo?». Al che il Miccichè esclamò: «Ma che sei pazzo? Bossi è giusto».
Miccichè spiega a Messina che la Lega Nord è l’espressione di una parte della Democrazia Cristiana e della massoneria che fa capo ad Andreotti e a Licio Gelli. Gli dice pure che dopo la Lega del Nord sarebbe nata una Lega del Sud, totalmente al servizio di Cosa Nostra, cosi che la mafia sarebbe divenuta Stato.
«L’ho saputo da Totò Riina», conclude Miccichè.
Il progetto – precisa Leonardo Messina - era stato concepito dalla massoneria. A tal riguardo, intendo chiarire che Cosa Nostra e la massoneria, o almeno una parte della massoneria, sono stati sin dagli anni Settanta un’unica realtà criminale. Il progetto aveva anche l’appoggio di potenze straniere. Era stata stanziata la somma di mille miliardi per finanziarlo. Sono coinvolti in tale progetto non solo esponenti della criminalità mafiosa e della massoneria, ma anche esponenti della politica, delle istituzioni e forze imprenditoriali.
I passaggi principali di questa «operazione» sono stati individuati dalla Procura di Palermo: nel 1991 sarebbe stato strutturato un piano criminale, con appoggi anche esteri, di cui facevano parte massoneria deviata, organizzazioni mafiose e uomini legati all’estrema destra. Prevedeva una strategia del terrore mirata a eliminare i vecchi referenti, cosi da consentire la nascita di un nuovo soggetto politico diretta emanazione degli interessi mafiosi.
L'inchiesta di Palermo si è chiusa con un'archiviazione per gli indagati, ma ha raccolto testimonianze importanti che confermano il racconto di Leonardo Messina.
È provato che ‘ndrangheta e camorra abbiano avuto un ruolo attivo nella vicenda. Lo riferisce, tra gli altri, il collaboratore di giustizia Pasquale Nucera: sostiene che nel corso di una riunione tenutasi al santuario di Polsi alla fine dell’estate 1991, era stato deciso di dar vita a un partito. I capi mafia erano tutti massoni. Il boss calabrese Francesco Nirta - scrive il pm Antonio Ingroia - avrebbe poi spiegato che si trattava di conquistare il potere politico, abbandonando i vecchi politici collusi che non garantivano più gli interessi mafiosi, e facendo ricorso ad uomini nuovi per formare un partito che fosse espressione diretta della criminalità mafiosa da portare al successo elettorale attraverso una campagna terroristica. Tale «campagna» si sarebbe realizzata in due fasi: nella prima sarebbero stati eliminati alcuni esponenti dello stato molto importanti perché impedivano alla Mafia di incrementare il proprio potere; nella seconda si sarebbe passato a destabilizzare, mediante la strategia del terrore, «il vecchio potere esistente», allo scopo di raggiungere il fine politico prefissato.
Stando a Nucera, tra i partecipanti alla riunione di Polsi ci sarebbe stato un «colletto bianco» insoddisfatto della vecchia DC, il quale dettava strategie da mettere in atto per agganciare nuovi referenti: il suo nome è Giovanni Di Stefano, amico del leader serbo Milosevic e in stretti rapporti d’affari con il criminale serbo Zeljko Raznatovic, meglio noto come «il comandante Arkan». Nel 1996 Di Stefano fonderà una Lega Sud finanziata-secondo Rade Kukic, un ufficiale dei servizi segreti serbi dallo stesso Arkan, che sarebbe stato anche in affari con la mafia palermitana.
Tra il 1990 e il 1993 nascono decine di leghe. La prima, di cui ha parlato il pentito Messina, si chiama Lega meridionale: è fondata da siciliani, napoletani, calabresi e pugliesi, ed è costituita il 27 giugno 1989 dall’avvocato Egidio Lanari, con al fianco il gran maestro Giorgio Paternò. Lanari - che è stato il difensore del boss Michele Greco, il «papà» della mafia propone pubblicamente di candidare alle successive elezioni politiche proprio Michele Greco, insieme a Vito Ciancimino e Licio Gelli.
Intorno alla Lega meridionale, il cui programma è indirizzato principalmente «contro la partitocrazia e la magistratura», gravitano diversi personaggi legati ad ambienti eversivi della destra che poi daranno vita ad altri movimenti simili.
L’anno dopo, nel corso di un convegno intitolato Giustizia e libertà organizzato a due passi dalla villa di Gelli, Lanari offre una candidatura al Venerabile. Poco tempo dopo, all’interno di un terzo convegno della Lega meridionale dal titolo Sicilia = Terra di nessuno o Stato di Polizia?, viene messo sul piatto un referendum abrogativo della legge Rognoni-La Torre, che disciplina il sequestro dei beni ai mafiosi già formalizzato presso la corte di Cassazione. Poi all’improvviso, Licio Gelli prenderà le distanze dal movimento per fondare con Domenico Pittella la Lega italiana. Ma la Lega meridionale non rimane un caso isolato. E per darsi da fare è sempre Gelli, insieme ad alcuni vecchi neofascisti, avvocati e diversi faccendieri.
Uno dei più attivi è Stefano Menicacci che nel maggio del 1990, insieme con il pregiudicato Domenico Romeo, in meno di due settimane fonda la Lega pugliese, la Lega marchigiana, la Lega molisana, la Lega meridionale o del Sud, la Lega degli italiani e la Lega sarda. Da una nota della Dia emergono contatti fra Stefano Menicacci e Paolo Bellini, il trafficante d’opere d’arte che si era occupato della trattativa con Antonio Gioè. Gelli si ritaglia il ruolo di opinion maker. Nel settembre 1992 rilascia un'intervista al settimanale «L'Europeo»:
E’ da un pezzo che ci sarebbero tutte le condizioni per un colpo di Stato onde eliminare la teppaglia che ci sta rapinando. In realtà, sa chi rappresenta l’unica speranza, in questo paese alla deriva? Bossi, che se davvero darà il via allo sciopero fiscale… ebbè, sarò il primo ad aggregarmi. D’altronde perché dovrei pagar le tasse?
Licio Gelli aveva già fondato una serie di movimenti separatisti. Il 7 maggio 1991 aveva dato vita alla Lega italiana insieme con Bruno Rozzera – un prefetto in pensione il cui nome era nelle liste della P2 - e l’ex senatore socialista Domenico Pittella, coinvolto nell’inchiesta giudiziaria sulle Brigate rosse denominata Moro-ter e condannato a sette anni e tre mesi per partecipazione a banda armata. Poi, il 31 gennaio 1992, Pittella crea con altri personaggi la Lega italiana-Lega delle leghe, e dopo pochi giorni presenzia in provincia di Potenza al primo forum della Lega delle leghe, con la partecipazione di elementi già appartenenti all’Msi, di rappresentanti del movimento lucano (in stretto contatto con la Lega nazional popolare, riconducibile a Stefano delle Chiaie) e della Lega Sud di Calabria. Nel marzo 1993 nasce il movimento politico Lega Italia. Anche il capo della P2 si trova dunque in sintonia con i boss siciliani.
L’idea di fondare un partito della mafia diventa realtà l’8 ottobre 1993, quando viene costituito a Palermo, su iniziativa di Leoluca Bagarella, il movimento Sicilia libera. A Trapani lo segue il boss Vincenzo Virga, mentre nel resto del Meridione sorgono formazioni come Calabria libera, Lega lucana, Campania libera o Abruzzo libero. A Catania il vulcanico Nino Strano, poi entrato in An, presenta nel gennaio ‘94 il movimento autonomista Lega Sicilia libera, variante etnea del movimento di Bagarella: secondo il collaboratore di giustizia Tullio Cannella, è finanziato dall’imprenditore Costanzo e da Nitto Santapaola il proprio ispiratore. Alle provinciali Strano che è il fratello dell’avvocato di Nitto Santapaola ottiene tredicimila voti e al ballottaggio appoggia Nello Musumeci, candidato ufficiale di An.
Ciancimino - racconta Tullio Cannella, incaricato da Bagarella di dar vita al movimento - mi disse che il progetto di Sicilia libera costituiva l’attuazione di una strategia politica che era stata messa in piedi da un’idea di Provenzano ed era partita negli anni precedenti con la nascita della Lega meridionale o qualcosa di simile, non ricordo bene il nome del movimento politico indicato da Ciancimino.
Don Vito gli dice che al progetto ha collaborato fortemente la ‘ndrangheta calabrese, e «che la vera massoneria è in Calabria e che la Calabria hanno appoggi di servizi segreti». Una riunione importante delle nuove Leghe sarebbe avvenuta a Lamezia Terme.
In questa riunione – prosegue Cannella – presero, fra gli altri, la parola un esponente della Lega Nord, di cui in questo momento non ricordo il nome, un giovane sui 33-34 anni, alto, di corporatura media, di capelli castano chiari; questa persona faceva parte del direttivo della Lega Nord e mi pare di ricordare che aveva una carica pubblica; […] disse che gli interessi della Lega Nord e quelli dei movimenti del Meridione coincidevano. Si doveva dare all’esterno una sensazione dell’antagonismo fra la Lega Nord e i movimenti del sud, ma in realtà si doveva agire di concerto per realizzare la divisione politica dell’Italia tra Nord e Sud.
Un altro colletto bianco che secondo i magistrati avrebbe avuto un ruolo in questa storia è Gianmario Ferramonti.
Già amministratore della «Pontida Fin». [società finanziaria della Lega Nord, nda] ed esponente della Lega Nord fin dal 1991 – così lo definisce l'inchiesta Sistemi criminali della Procura di Palermo, poi archiviata - era, da una parte, uno stretto collaboratore del professore Gianfranco Miglio e, dall’altra, al centro di una rete di relazioni con esponenti di spicco della massoneria italiana ed internazionale ed ambienti dei servizi italiani e stranieri. Emergenze che quindi costituiscono un sorprendente riscontro alle rivelazioni di Leonardo Messina sull’esistenza di rapporti fra la Lega Nord, in particolare il professore Miglio, ed ambienti della massoneria rappresentati da Licio Gelli. Da tale inchiesta è emerso che il Ferramonti aveva ottime «entrature» negli ambienti dei servizi italiani e stranieri, tanto da essere ritenuto da molti [Umberto Bossi e Roberto Maroni, nda] un uomo legato alla Cia o comunque ad ambienti dei servizi. Ed è risultato inoltre certamente in rapporti con esponenti di rilievo della massoneria, fra i quali Iginio Di Mambro. Ferramonti, nelle sue dichiarazioni, si è attribuito il merito di aver contribuito al patto elettorale tra Forza Italia con An e con la Lega per le elezioni del 1994, e di essere stato fra gli organizzatori dell’incontro, peraltro confermato dagli altri partecipanti, che si svolse presso un hotel di Roma, prima della formazione del Governo Berlusconi del ‘94, per l’assegnazione dell’Interno alla Lega: all’incontro parteciparono, con Ferramonti, l’allora Capo della Polizia Vincenzo Parisi, Enzo De Chiara, un ristoratore italo-americano con importanti entrature nel partito repubblicano dei Bush, l’on. Umberto Bossi e l’on. Roberto Maroni (poi effettivamente nominato ministro).
Ferramonti era già stato protagonista di una vicenda che gli stessi magistrati definiscono «inquietante». Nel novembre 1993 si era rivolto a Enzo De Chiara perché sollecitasse non solo un intervento «americano» per «congelare» un progetto di ristrutturazione dei servizi di sicurezza portato avanti dal governo Ciampi, ma anche l'affidamento a Pino Arlacchi di un incarico governativo di controllo degli stessi servizi. Proprio quel Pino Arlacchi contro il quale pochi mesi dopo si era scagliato Totò Riina dalla gabbia di un tribunale.
Il collaboratore di giustizia Massimo Pizza racconta di aver letto su un documento riservato che Ferramonti sarebbe stato il trait d’union fra la Lega Nord e Lega meridionale. Per inciso, un cenno a un Partito del Sud era apparso nella lista di controproposte stilata da Vito Ciancimino durante la trattativa. Massimo Ciancimino sostiene che suo padre e il Venerabile si sarebbero incontrati a Cortina nell'estate del 1992.
Progettavano una sorta di Partito del Sud, un'entità che potesse rappresentare il Sud d'Italia. Mio padre aveva partecipato alla manifestazione organizzata al centro congressi Hotel Michelangelo di Roma, e anche in quella occasione si era parlato di mettere in campo una nuova forza politica che potesse rappresentare il Sud Italia. Allora mio padre aveva parlato di quella che doveva essere la sua idea: aveva scritto uno statuto di un partito che doveva chiamarsi Rinascita. Perché non andò a buon fine? Perché la seconda volta che incontrò Gelli, non lo reputò una persona adatta a proseguire il progetto e perché l'incontro con Gelli non dico che era stato ordinato, ma era stato sollecitato da qualcuno, da qualche amicizia collocabile in altri ambienti. […] Il sogno della mafia era controllare la comunicazione. La mia è solo un'ipotesi ma certe cose sono processualmente accertate. Tra i tanti soggetti che ruotavano attorno a Cosa nostra, c'è sempre stato chi desiderava la vicinanza o l'accavallamento di una rete, ai media, o un giornale locale.
Dal gennaio 1994 Sicilia libera inizia a sfaldarsi. Proprio in concomitanza con il patto elettorale che secondo Ilardo sarebbe stato siglato tra l'insospettabile esponente dell'entourage di Berlusconi e Cosa nostra. Stando a Tullio Cannella, l'appoggio a Forza Italia non determina l'abbandono della strategia separatista che continua ad essere coltivata perché questa strategia costituiva il punto d'arrivo e la soluzione finale dei problemi di Cosa Nostra e dei suoi alleati esterni. […] Quando nell'ottobre 1993, su incarico di Bagarella, costituì a Palermo il movimento Sicilia libera, le due strategie già coesistevano, e lo stesso Bagarella sapeva della prossima «discesa in campo» di Silvio Berlusconi. Bagarella, tuttavia, non intendeva rinunciare al programma separatista, perché non voleva ripetere «l'errore» di Riina, cioè dare troppa fiducia ai politici, e voleva, quindi, conservarsi la carta di un movimento politico in cui «Cosa nostra» fosse presente in prima persona. Inoltre, va detto che vi era un'ampia convergenza tra progetti, per come si andavano delineando, del nuovo movimento politico capeggiato da Berlusconi e quelli dei movimenti separatisti. Si pensi al progetto di fare della Sicilia un porto franco, che è un impegno dei siciliani aderenti a «Forza Italia». […] Questo era per noi un primo obiettivo immediato di non scarsa rilevanza nell'ambito del nostro progetto separatista.
E la sintesi accade, al punto che il movimento Sicilia libera viene denominato Forza Italia – Sicilia libera.
L'idea del Partito del Sud, che in una nota scarna Vito Ciancimino aveva scritto di pungo nell'estate del '92 tra gli appunti che accompagnavano il papello, ha camminato come un fiume carsico fino ai giorni nostri. Ha viaggiato in maniera sotterranea, spuntando qua e là di tanto in tanto. L'ultimo a pensarci è stato il governatore della Sicilia Lombardo, staccatosi dall'Udc nel 2005 per fondare l'Mpa, il Movimento per l'autonomia. Lombardo sta lavorando al Partito del Sud. Gira per le grandi città del meridione in cerca di consensi. Questa una delle sue frasi celebri: «Non ci piace Garibaldi, noi dobbiamo rivalutare i nostri Briganti».
Ha pensato di coinvolgere nel progetto alcuni alleati siciliani: Gianfranco Micciché e Marcello Dell'Utri, ma per realizzarlo ci vogliono finanziamenti. Per adesso, si va a vedere chi ha pubblicamente finanziato l'Mpa di Lombardo nelle dichiarazioni congiunte si ha una sorpresa. Ci sono solo due versamenti, uno nel 2007 di 387mila euro, e il secondo nel 2008 di 292mila. Unico benefattore: la Lega Nord. In una regione a statuto speciale, nasce un movimento per l'autonomia, che continua a chiedere soldi allo Stato ed è supportato dalla Lega Nord. Per noi è un ragionamento troppo avanti nel tempo, che però fa riapparire i vecchi fantasmi del passato e progetti dei primi anni Novanta. L'idea del Partito del Sud nasce a Catania.
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