Tangentopoli e Cosa nostra

21.05.2013 13:25

 

Nell’autunno 1993 a casa del procuratore Borrelli avviene un incontro tra i due pool giudiziari più amati (e temuti) d’Italia: quello di Milano e quello di Palermo. Sono presenti Di Pietro, Gherardo Colombo, Davigo. Arrivano dalla Sicilia il procuratore Gian Carlo Caselli con Roberto Scarpinato, Antonio Ingroia, Luigi Patronaggio.

Il vertice ha lo scopo di mettere a confronto le esperienze delle due Procure: molti dei costruttori indagati e arrestati a Milano hanno cantieri aperti anche in Sicilia. La Lodigiani, la Cogefar del gruppo Fiat, la Calcestruzzi del gruppo Ferruzzi, la Grassetto di Ligresti, le cooperative rosse dell’Emilia-Romagna sono attive a Milano come a Palermo. E in Sicilia, mentre a Milano si sviluppa Mani pulite, è in corso una complicata indagine su mafia e appalti, che aveva scoperto la Tangentopoli siciliana: una torta da 1.000 miliardi, su cui vegliava Cosa nostra.

A Palermo era chiamata «Tavulinu»: il tavolino a tre gambe a cui erano seduti gli imprenditori, i politici e gli uomini della mafia. È il colonnello Mario Mori, capo del Ros, che ne parla a Di Pietro, presentandogli i risultati del rapporto «Mafia e appalti» stilato già nel 1991 dal giovane capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno. Dopo l’incontro con Mori, Di Pietro, accompagnato da De Donno, vola a Roma e il 12 novembre 1992 interroga in carcere Giuseppe Li Pera, rappresentante in Sicilia di una grande impresa edile friulana, la Rizzani De Eccher. Poi si mette all’opera: «Faccio opera di pubbliche relazioni con gli avvocati degli imprenditori che sono attivi sia a Milano sia in Sicilia», racconta Di Pietro. «Sondo se è possibile avere aperture nelle due direzioni. E ottengo qualche risultato». Milano-Palermo: indagini incrociate per due Tangentopoli gemelle.
Dieci anni dopo, gli entusiasmi per Mani pulite del biennio 1992-93 sono completamente svaporati. Il tifo da stadio si è trasformato in indifferenza, o addirittura in ostilità.

È in corso a Milano un processo che vede accusati, per corruzione, due giudici, un imprenditore e il suo legale. I fatti risalgono a diversi anni fa: centinaia di milioni versati su conti esteri ai due giudici perché emettessero sentenze favorevoli all’imprenditore.

La pubblica accusa ha in mano prove molto circostanziate e convincenti. Nel frattempo, però, l’imprenditore è divenuto, a furore di mezzo popolo, presidente del Consiglio. E mezzo mondo si chiede: se sarà condannato, che cosa farà Silvio Berlusconi? Accetterà la sentenza? Il presidente della Repubblica gli chiederà di dimettersi? O gli chiederà di tornare in Parlamento per la riconferma della fiducia? O, forse, il presidente del Consiglio, forte del mandato popolare, convocherà manifestazioni di piazza in suo favore e contro i giudici? Ne va del destino dell’Italia, non solo delle sue mani insaponate sotto il rubinetto.

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