Senza regole, muore anche Chinnici.

21.05.2013 12:28

 


Quel tragico 1982 era destinato a chiudersi con un altro lutto tra le fila della polizia. Il 14 novembre l’agente Calogero Zucchetto viene freddato da 5 colpi di calibro 38 all’uscita di un bar. Zucchetto aveva 27 anni, aveva fatto parte della iniziale scorta di Falcone per poi passare sotto il comando del commissari Beppe Montana e Ninni Cassarà, alla ricerca dei latitanti. Era un agente brillante, e le sue doti gli avevano consentito ottimi risultati. Troppo buoni per i canoni mafiosi.

Il 1983 non si apre meglio. Nella notte tra il 25 e 26 gennaio a Trapani cade il giudice Gian Giacomo Ciaccio Montalto. Secondo Falcone suo amico, si ripeteva il medesimo canone: Ciaccio Montalto era morto perché lasciato solo. Monreale torna a distanza di tre anni, a registrare la morte del comandante della stazione dei carabinieri. Il 13 giugno muore il capitano Mario D’Aleo, insieme all’appuntato Bonmarito e al carabiniere Marici. D’Aleo era subentrato al defunto Emanuele Basile.

Sono anni terribili per le forze dell’ordine in Sicilia. “Ci si sente come in trincea” diranno in molti, ma a questo sentimento comune se ne associava un altro come scrive Giuseppe Ayala: “Non c’era tregua, ma quanto più avvertivamo che non ce n’era, tanto più sentivamo che la posizione andava tenuta oggi, e magari avanzata domani”.

Sono le otto di mattina del 29 luglio sempre di questo maledetto 1983. Il giudice Rocco Chinnici stava uscendo dal portone del suo palazzo in via Pipitone Federico. In quel istante una Fiat 500 farcita di esplosivo viene fatta brillare con un comando a distanza. Oltre a Chinnici, la deflagrazione dilania i corpi di due uomini della sua scorta, i carabinieri Mario Trapassi e Edoardo Bartolotta, nonché del portiere del palazzo, Stefano Lisacchi. Riesce a salvarsi l’autista, Giovanni Paparcuri che per caso era rimasto all’interno dell’auto blindata. L’esplosione è di una tale potenza da udirsi in mezza Palermo, ed in tanti temono una scossa tellurica. Ai soccorritori la vista di palazzi sventrati, delle auto disintegrate, o di altre proiettate a decine di metri, rievoca scenari di guerra. Ed è di vera guerra chi si tratta. Un conflitto impari, senza regole, perché se da un lato i pochi organismi delle istituzioni erano impegnati a far rispettare la legalità secondo norme precise, dall’altro un esercito silenzioso nascosto nell’ombra e crudele, si avvaleva di mitra e tritolo protetto da uomini dello Stato stesso, esercitando quella intimidazione che induceva all’omertà la popolazione.

La città ricade in preda al terrore. La parte sana della magistratura assiste attonita alla perdita della sua figura di riferimento. Rocco Chinnici fu il padre ispiratore del pool antimafia di Palermo, ma fu soprattutto colui che infranse quel muro di “colpevole indifferenza” che per anni stanziò tra gli uffici della procura del capoluogo siciliano. Lo stesso Borsellino biasimerà se stesso, per non aver reagito con forza, almeno sino ai quarant’anni, al cospetto di quel atteggiamento apatico mascherato da apolitico. Erano anni dove anche all’interno della magistratura la parola mafia veniva pronunciata collettivamente a denti stretti, come si parla di una entità che si teme ma di cui si prova vergogna, quasi di un male incurabile che ti marchia nell’istante in cui ti sfiora. Non si trattava di collusione e nemmeno di complicità, almeno in termini generali. Era una scelta conservatrice che mirava alla salvaguardia di agi e benefici, che non suscitava la necessità di scavare oltre un certo limite. Una ricerca del quieto vivere per un magistrato, in un contesto come quello siciliano, equivaleva però a non combattere il suo cancro sociale per antonomasia: la mafia.

Chinnici ignorò chi, come l’allora procuratore generale Giovanni Pizzillo, in occasione del processo Spatola, non perse occasione per rimproverarlo duramente:”…Chinnici, ma che credete di fare all’ufficio istruzione? La devi smettere di indagare nelle banche. A quel Falcone caricalo di processi, così farà quello che deve fare un giudice istruttore. Niente. Hai capito Chinnici?”. Dinanzi agli ordini di continuare a svolgere una ordinaria amministrazione, Chinnici alzò le spalle e per questo morì. Un atteggiamento che aprì una nuova era, la più gloriosa di successi contro Cosa Nostra.

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