Profitti e perdite - Riciclaggio

21.05.2013 12:51

 

Traffico di droga uguale riciclaggio. È impensabile che i profitti derivati dal commercio di stupefacenti giungano ai beneficiari per vie legali. Da qui la scelta della clandestinità. Per tre motivi: il carattere illegale dell'affare; le eventuali restrizioni all'esportazione di capitali; la naturale prudenza di spedizionieri e destinatari.

Poiché le manovre finanziare necessarie per il riciclare il denaro sporco non possono venire effettuate integralmente dalle organizzazioni interessate – cui fanno difetto le competenze necessarie -, il compito è affidato a esperti della finanza internazionale, i cosiddetti «colletti bianchi», che si pongono al servizio della criminalità organizzata per trasferire capitali di origine illecita verso paesi più ospitali, i ben noti «paradisi fiscali».

È sempre difficile individuare le tracce di operazioni del genere. Il riciclaggio – che consiste in operazioni dirette a ripulire la ricchezza dalla sua origine illegale – per essere combattuto efficacemente richiederebbe armoniche legislazioni internazionali e una seria collaborazione tra gli Stati interessati. La legislazione non è ancora adeguata alla gravità e alle dimensioni del problema, specialmente sul fronte delle indagini patrimoniali e bancarie. E il nuovo codice di procedura penale non è venuto di certo a migliorare la situazione, con i limiti temporali – sei mesi, salvo limite possibilità di proroga – che impone alle indagini e con l'obbligo di informare la persona sospetta.

Si sente ripetere sui giornali che il riciclaggio passa attraverso le finanziarie di Milano. Ma quante ne sono state identificate? Pochissime. Si dice da più parti che i riciclatori si servono delle operazioni di Borsa. Quante operazioni di questo tipo abbiamo scoperto? Nessuna, che io sappia. Affermazioni avventate di tal fatta possono influire in modo non irrilevante sul mercato legale. A volte il semplice fatto che la stampa additi alcuni settori finanziari come privilegiati del riciclaggio basta a dirottare l'investimento con le intuibili conseguenze negative. Per dirla come i banchieri, il denaro ha «zampe di lepre e cuore di coniglio».

Raramente i grandi flussi di denaro sporco coinvolgono un solo paese. È indispensabile quindi una larga collaborazione tra Stati. Una delle rare indagini finanziarie condotte in Italia è stata iniziata dai giudici palermitani nel 1984.

Indagando su Vito Ciancimino, nel 1986 accerto che su tre conti di banche svizzere, intestati a un sospetto italiano – chiamiamolo signor X -, si erano verificati nel 1981-82 bruschi e importanti movimenti di capitali, presumibilmente provenienti dal traffico di droga. Chiedo alle autorità elvetiche di poter consultare la loro documentazione in materia. Autorizzazione concessa. Ma i conti all'improvviso si prosciugano. Continuo l'indagine e scopro che le somme trasferite – cinque milioni di dollari – sono finite sul conto di una società panamense. Che le ha divise in due parti: 2 milioni e mezzo di dollari hanno preso la strada di una banca di New York, i rimanenti 2 milioni e mezzo di dollari sono stati dirottati su una banca di Montreal. Ma le peregrinazioni non finiscono qui, continuano fino al 1991.

I dollari si ritrovano di colpo insieme sul conto di una società di Guernesey, in Gran Bretagna, che è del tutto all'oscuro della loro provenienza illecita. Su ordine del signor X, la società divide i 5 milioni in 5 parti e li deposita su 5 diversi conti bancari. Da qui riprendono la strada per la Svizzera, dove atterrano – semplice coincidenza? - in una banca che ha sede accanto alla prima, quella che aveva attirato i nostri sospetti. Nuova domanda di collaborazione alle autorità elvetiche, nuova autorizzazione. Constato che i 5 milioni di dollari hanno proliferato e sono diventati 15, versati su 5 conti diversi. L'incredibile tragitto del denaro si conclude solo nel 1991, quando un magistrato svizzero ne decreta il sequestro.

Un'indagine del genere esige una conoscenza avanzata delle tecniche bancarie da parte del magistrato, un'ampia collaborazione tra governi di diversi paesi e anni di lavoro. Senza l'aiuto dei magistrati e autorità elvetiche e di altri Stati non sarei riuscito a portare a termine l'istruttoria. Contrariamente a quanto si pensa la Svizzera è uno di quei paese che prestano più collaborazione, perché ha compreso che è finita l'epoca in cui era possibile tenere il denaro sporco e lasciare i mafiosi fuori dalla porta. Il denaro della mafia comporta necessariamente, prima o poi, la presenza degli uomini e dei metodi mafiosi.

Nella maggior parte dei paesi coinvolti nel traffico di eroina e nel riciclaggio di denaro, ho dovuto individuare dei referenti. Con i francesi ho avuto buoni rapporti personali soprattutto in campo giudiziario: il giudice Debaq di Marsiglia per molti mesi ha svolto un'attività febbrile per gli interrogatori di Antonio Calderone; il giudice Sampieri l'ho conosciuto per l'affare Michele Zaza. I buoni rapporti con la Francia, però, si inceppano in materia di estradizione – eredità degli anni del terrorismo – perché i nostri reati di associazione mafiosa non vengono riconosciuti dalla legge francese.

Ricordo di essermi recato nel 1983 al tribunale di Créteil per interrogare un pregiudicato, Francesco Gasparini, arrestato in Francia e trovato in possesso di sei chilogrammi di eroina. Arrivava dalla Thailandia e stava partendo per l'Italia. I colleghi di Parigi mi avevano detto: «La tua venuta è inutile,non dirà una parola». Ci sono andato lo stesso e, per colpo di fortuna insperata, il giorno dopo il mio arrivo Gasparini decise di parlare.

Se la collaborazione con la Francia è buona, con gli Stati Uniti è addirittura eccellente. Con Canda, Gran Bretagna, Spagna e Germania le cose vanno abbastanza bene, mentre sono più difficili con Thailandia, Egitto e Israele, anche se con Debaq sono riuscito a istruire un processo a carico di alcuni israeliani.

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