«Normalizzazione»

21.05.2013 13:04

 

 

La manovra di isolamento a Giovanni Falcone si completò quando sempre nell’estate del 1988, il governo nominò Domenico Sica quale nuovo alto commissario per la lotta alla mafia. Sica proveniva da Roma ed alla cerimonia di insediamento esordì con: «La mafia? Sono qui per capire cos’è. Nei primi tempi ascolterò molto». Per quanto onesto e umile fosse l’approccio, non vi erano figure alternative per quella carica che la mafia già la conoscessero a dovere?

Un governo intento a servire al meglio le istituzioni forse le avrebbe individuate, senza il bisogno di cercarle nemmeno tanto lontano. Il punto è che il termine «emergenza mafiosa», così ipocritamente sfruttato dal mondo politico, rappresenta una corbelleria monumentale. Non si può definire una emergenza, centocinquanta e più anni di attività di una organizzazione criminale. È lo Stato a scegliere il frangente in cui la mafia si tramuta in allarme nazionale, e quasi sempre questo coincide con l’uccisione di un suo alto rappresentante, o quando un eccessivo numero di cadaveri che riemergono nelle strade scuote l’opinione pubblica. Solo in quel istante a tutte le voci dell’antimafia viene data credibilità e spazio, ed il coro istituzionale parla all’unisono di emergenza da combattere. Terminata la stagione si ritorna alla normalità, e tutti coloro che Cosa Nostra l’hanno combattuta da sempre, dentro e fuori la presunta emergenza, diventano voci fuori dal coro da zittire, perché moleste e noiose. Gli interessi mafiosi necessitano di silenzio e tranquillità per essere proficuamente coltivati. Secondo questa filosofia, così apertamente illustrata da più segnali, uomini come Falcone avevano esaurito il loro compito. Come la definisce Ayala, era giunto il tempo di una «normalizzazione» della guerra alla mafia.

L’elemento più indicativo di questo processo, come ripetutamente evidenziato dagli interventi di Falcone e Borsellino, traspariva dalle condizioni in cui gravava la polizia. Poteva mascherarsi da comune inefficienza, ma dietro si celava una volontà politica. Un episodio al riguardo, più sintomatico di altri della nuova strategia antimafia, fu costituito dal trasferimento di Saverio Montalbano, dirigente della Squadra Mobile di Palermo.

Il poliziotto era a capo delle indagini sulla morte del sindaco Giuseppe Insalaco, assassinato nel gennaio di quel anno. Era stato rinvenuto una specie di diario della vittima, contenente precise annotazioni dell’intreccio mafia politica, e Montalbano stava ripercorrendo le tracce di un così prezioso memoriale. Quando all’inizio di agosto il settimanale l’Espresso, usci con una inchiesta sulla vicenda, divenne di pubblico dominio che l’investigatore stava indagando su nomi, luoghi e date che coinvolgevano le lobbies politico economiche della città in affari mafiosi.

Non furono poche le poltrone che iniziarono a tremare, al cospetto di una situazione potenzialmente così pericolosa, ma vi fu chi, in possesso del dovuto sangue freddo, seppe trovare la soluzione al problema. Montalbano venne bruscamente mandato in ferie, anche se ufficialmente a godersi un meritato riposo, ma al suo rientro trovo il suo l’ufficio occupato da altri. Solerti dirigenti della polizia avevano nel frattempo predisposto la sua dislocazione ad un meno in vista commissariato di provincia.

Un secondo esempio fornito dal processo di normalizzazione toccò una altro funzionario, il dottor Francesco Accordino, protagonista quale dirigente della squadra omicidi, della fulgida stagione di successi degli arresti in serie. Egli si permise di affermare, in una intervista rilasciata ad Ennio Remondino del TG1, di nutrire fondati sospetti su più funzionari della questura che, invece di combattere la mafia, si impegnavano a soddisfare le normalizzanti esigenze censorie di figure altolocate. Bastarono poche parole in questa direzione, per rendere il glorioso curriculum di Accordino carta straccia, destinandolo alla guida del commissariato di polizia postale di Reggio Calabria.

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