Nefasti presagi
21.05.2013 13:08
L’efferata uccisione di Rosario Livatino scosse la Sicilia e tutto il paese. A colpire nel segno il cuore della gente, la sua giovane età, il viso da ragazzo, la sua storia di persona semplice ed onesta che aveva sempre lavorato nell’ombra, umilmente.
Giovanni Falcone da Palermo e Paolo Borsellino da Marsala, giunsero immediatamente sul luogo dell’agguato. Dinanzi a quella morte sopraggiunta in un momento così drammatico della lotta alla mafia, si potevano scorgere nefasti presagi che oltrepassavano l’ennesima tragica morte di un servitore della giustizia, perito ancora una volta senza la protezione dello Stato.
Dalla sentenza del maxi processo all’inizio del 1989 13, l’introduzione di un pacchetto di normative che limitava i tempi della carcerazione preventiva, aveva provocato una emorragia di uscite dal carcere: solo 60 dei 342 condannati si trovavano ancora ospiti delle patrie galere. Nel frangente storico in cui era stata eliminata una delle più giovani e brillanti promesse della magistratura antimafia inoltre, la Corte D’Assise D’Appello di Palermo annullò alcune condanne del Maxi Processo, respingendo il nodo centrale del «Teorema Buscetta».
La sentenza in pratica non riteneva che i membri della Commissione mafiosa fossero i mandanti di molti delitti eccellenti. L’ulteriore giudizio veniva rimandato alla Corte di Cassazione dove si temeva la smantellazione di altri tasselli della delibera di primo grado.
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