Marcello Dell'Utri. Il «compaesano»

21.05.2013 13:29

 

Quando nel febbraio 1994, in piena campagna elettorale, l'infiltrato tira fuori la storia di un insospettabile esponente dell'entourage di Berlusconi in contatto con la mafia, il tenente colonnello Riccio decide di non fargli troppe domande. Si limita a parlarne a Gianni De Gennaro.

«il capo ed io – afferma oggi Riccio – abbiamo ragionato insieme su chi potesse essere. C'era una rosa di “candidati” nella quale immaginammo si potesse individuare il a cui si riferiva Ilardo (l'infiltrato)».

Nell'estate del 1995, mentre si trova in macchina con lui, l'ufficiale torna sull'argomento. Sta sfogliando un quotidiano locale, e l'occhio gli cade su un articolo che racconta di una querelle giudiziaria tra Marcello Dell'Utri e l'imprenditore Alberto Rapisarda. «Per caso l'uomo dell'entourage di Berlusconi di cui mi parlavi è Dell'Utri?» domanda Riccio all'infiltrato. «Colonnello – gli risponde Ilardo con un sorriso a mezza bocca – ma se lei le cose le capisce, che me le chiede a fare? Comunque, ne parleremo quando sarà tutto finito».

Cosa può saperne Ilardo di quella storia? E chi è davvero Marcello Dell'Utri, riconosciuto come l'eccellente uomo d'affari a capo di Publitalia – la concessionaria di pubblicità delle reti televisive del gruppo Mediaset – nonché amico intimo e collaboratore di Silvio Berlusconi?

A partire dagli anni Sessanta, Dell'Utri intrattiene rapporti con importanti uomini di Cosa nostra: mafiosi borghesi del calibro di Mimmo Teresi, uomo ombra di Stefano Bontade, o assassini e trafficanti di droga come Vittorio Mangano (lo stalliere di Arcore). E proprio a Mangano si rivolge Dell'Utri (forse ignaro dei precedenti penali dell'uomo) a metà degli anni Settanta su consiglio del mafioso Gaetano Cinà, quando Berlusconi gli dice di aver bisogno di qualcuno che si occupa della sicurezza dei propri figli. Per circa un anno Mangano vive nella villa di Arcore con l'incarico ufficiale di stalliere, e spesso cena con Dell'Utri e il futuro presidente del Consiglio.

«Non avevamo trovato in tutta la Brianza una persona adatta […] - dichiarerà Dell'Utri nel corso di una puntata della trasmissione televisiva Il raggio verde. - Quando Mangano venne su gli piacque l'offerta, e a Berlusconi piacque perché era una persona che si presentava bene, non era uno che si presentava con la coppola in testa e la lupara in mano, tanto per essere chiari … »

nel dicembre 1975 Mangano viene arrestato. Una volta rilasciato, non fa ritorno ad Arcore e si ferma a Milano in una stanza dell'hotel Duca di York. Frequenta uno stabile di via Larga, vicino al Duomo, dove girano membri del clan Fidanzati e altri boss legati al vertice della mafia palermitana. Nel 1980 lo arrestano di nuovo per droga e finisce nel maxiprocesso istruito da Falcone e Borsellino. Dell'Utri, però, rimane in buoni rapporti con lui e con Cinà. E vede, per sua stessa ammissione, anche diversi mafiosi con i quali si intrattiene a cena e in altre occasioni conviviali.

Secondo il collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo, tra la primavera e l'autunno del 1974 ha luogo una riunione tra Stefano Bontade, Dell'Utri, Silvio Berlusconi e altri mafiosi.

Rammento in particolare – dirà Di Carlo nel 1997 ai giudici palermitani – che il TERESI, il BONTADE ed il CINÀ erano particolarmente eleganti e, a mia domanda, specificarono che dovevano incontrare un grosso industriale milanese, amico di Tanino Cinà e di Marcello DELL'UTRI. Mi chiesero, in quell'occasione, di andare con loro a questo incontro, ed io accettai di buon grado. Ci recammo, quindi, in un ufficio non molto distante dal centro di Milano, ove ci accolse Marcello DELL'UTRI, che ci fece accomodare in un ufficio che non so dire se fosse o meno il suo. Dopo circa quindici minuti, venne Silvio BERLUSCONI. Pertanto alla riunione eravamo presenti: io, Tanino CINÀ, Mimmo TERESI, Stefano BONTADE, Marcello DELL'UTRI e Silvio BERLUSCONI. Ricordo che, in quest'occasione, il BONTADE inviò il BERLUSCONI ad investire in Sicilia, ma lo stesso replicò che «già temeva i siciliani che al Nord non lo lasciavano tranquillo». In effetti il BONTADE, in macchina, mi aveva già anticipato che la persona che dovevamo incontrare (e che poi seppi essere il BERLUSCONI) aveva paura di essere sequestrato, per cui colsi al volo l'allusione. Al BERLUSCONI, Stefano BONTADE replicò che non avrebbe più avuto nulla da temere, che già c'era vicino a lui Marcello DELL'UTRI, e che, comunque, gli avrebbe mandato qualcuno dei suoi in modo da non fargli più avere alcun problema con i «siciliani». Successivamente Gaetano CINÀ mi disse che era stato inviato presso il BERLUSCONI, Vittorio MANGANO, allora appartenente al mandamento di Stefano BONTADE, e che per qualsiasi contatto con lo stesso BERLUSCONI si sarebbe dovuti passare dallo stesso MANGANO. Ricordo adesso, in sede di verbalizzazione riassuntiva, che BERLUSCONI, al termine di questo incontro, disse testualmente che «era a nostra disposizione per qualsiasi cosa». La stessa cosa gli confermò, per la sua parte, Stefano BONTADE.

Cosa nostra ha riciclato denaro sporco attraverso Berlusconi? La Procura di Palermo vi ha indagato sopra a lungo per poi archiviare tutto. Secondo i pm Antonio Ingroia e Nico Gozzo, rimangono delle ombre su alcuni grandi afflussi di denaro nelle casse della neonata Fininvest a partire dal 1975. Silvio Berlusconi ha però deciso di non fornire alcun contributo di chiarezza su questo punto, avvalendosi il 26 novembre 2002 della facoltà di non rispondere.

1986, una bomba deflagra di fronte al cancello di una villa di proprietà della Fininvest, in via Rovani, in pieno centro di Milano. Berlusconi è convinto che sia opera di Vittorio Mangano, il quale però in quel momento è detenuto.

Una cosa rozzissima, ma fatta con molto rispetto, quasi con affetto … - dice Berlusconi a Dell'Utri nel corso di una telefonata intercettata. - Uno dice: ma è arrivata una raccomandata, caro dottore? Lui ha messo una bomba!

A risolvere la vicenda sarà Gaetano Cinà, interpellato per porre fine alle intimidazioni. È talmente grato per l'opera di intermediazione che gli viene richiesta, da spedire due cassate enormi a Berlusconi e a Fedele Confalonieri in occasione del Natale, comunicandolo a Marcello Dell'Utri. In realtà, stando ad alcuni pentiti, la bomba di via Rovani non proveniva dalla mafia palermitana, ma da quella di Catania.

Le minacce tornano a farsi sentire nel 1988, e stavolta sono indirizzate ai figli del futuro premier. È Berlusconi a dirlo per telefono all'amico Renato Della Valle. «Se fossi sicuro di togliermi questa roba dalle palle – testimonia l'intercettazione – pagherei tranquillo».

Dalle minacce si passa di nuovo agli attentati, come quelli alla Standa di Catani all'inizio degli anni Novanta. L'idea è di Giovanni Brusca, e a metterla in pratica sono le famiglie catanesi. «Nel momento che il signor Berlusconi si veniva a lamentare – spiega Brusca – nuautri putivamo... accussì videmu d'agganciari Craxi tramite Berlusconi».

A Palermo intanto, in un libro mastro della famiglia Madonia, compare la scritta «Can. 5 990/5 milioni». Secondo i pentiti, è il costo per la «protezione» delle antenne Mediaset che ricadono nel territorio dei Madonia. Altri collaboratori di giustizia affermano che alla cosca di Gaetano Cinà arrivano dalla Fininvest fin dal 1986 decine di milioni ogni anno. Nello stesso periodo, appurano le indagini, il gruppo Berlusconi acquisisce «appalti in Sicilia senza conflitti con la locale imprenditoria mafiosa, anzi, entrando in società con alcuni imprenditori che sono risultati legati a Cosa nostra». Tra l'aprile e il novembre 1991, nella sua progressiva espansione nel settore televisivo, il gruppo Fininvest incorpora cinque società con sede a Palermo (Rete Sicilia Srl, Sicilia televisiva Spa, Sicil Tele Srl, Trinacria Tv Srl, Crt Sicilia Color Srl), che fino a quel momento avevano ritrasmesso le sue trasmissioni. In alcune di queste società siedono uomini legati a Cosa nostra.

È in virtù di tali vicende alla vigilia della stragi del 1992, secondo svariati pentiti, Riina fa riferimento ai due imprenditori? «Quelli me li sono messi nelle mani e questo è un bene per tutti noi» avrebbe detto il boss ai suoi. Il capo dei capi parla di quei contatti proprio mentre Dell'Utri viene incaricato di progettare un nuovo partito. Una bella coincidenza.

Alla fine del 1993 Marcello Dell'Utri è nel pieno di un'avventura straordinaria, un progetto che coltiva almeno nella primavera del 1992. a raccontarlo è l'ex democristiano milanese Enzo Cartotto, amico di vecchia data di Silvio Berlusconi, incaricato proprio da Dell'Utri di verificare l'opportunità di mettere in piedi un nuovo movimento politico con a capo l'imprenditore milanese.

Dell'Utri invita Cartotto ad agire «come sotto il servizio militare, e cioè preparare i piani, chiuderli in un cassetto e tirarli fuori in caso di necessità». Il progetto, denominato «Operazione Botticelli», viene messo nero su bianco ma rimane fermo sino al 4 aprile 1993, giorno in cui Cartotto è ad Arcore da Berlusconi.

[Dice Berlusconi] m'avete fatto venire l'esaurimento nervoso – così riferisce Cartotto di quell'appuntamento – Letta e Confalonieri dicono che è una pazzia che io entri in politica, dicono che mi faranno di tutto, che mi metterò contro sindacati, magistrati e partiti di sinistra. Voi invece, tu e Dell'Utri, dite che se le cose dovessero andare male, se la sinistra andasse al potere, diventerei il loro bottino, mi toglierebbero le concessioni televisive, le banche mi toglierebbero i fidi … mi impedirebbero di fare il mio lavoro. E allora? - dice allargando le braccia – Cosa devo fare? A volte mi capita perfino di mettermi a piangere, quando sono sotto la doccia e sono solo con me stesso.

All'incontro arriva anche Bettino Craxi, che tiene una lezione di strategia politica su come conquistare i collegi elettorali sfruttando le Tv. Prende carta e penna e comincia a fare dei cerchietti su un pezzo di carta:

Questo – dice – è un collegio elettorale di circa 110mila persone, di cui circa 85mila sono quelli che hanno diritto al voto, mentre quelli che andranno a votare saranno 60-65mila […] Con l'arma che hai tu in mano delle televisioni attraverso le quali puoi fare una propaganda martellante a favore di questo o quel candidato, ti basterà organizzare un'etichetta che riesca a raggruppare 25-30mila consensi per avere possibilità di rovesciare il pronostico.

È in quel momento che parte l'avventura politica di Berlusconi, fra Tangentopoli e le bombe della mafia.

Il 27 maggio esplode l'autobomba in via di Georgofili. Ai primi di giugno Berlusconi decide nome e logo del partito. Nel mese di luglio, benché fosse stato raccomandato il massimo livello di riservatezza, logo e simbolo di Forza Italia vengono registrati al ministero dell'Industria, quasi fossero il nome e il marchio di un salamino: un errore di un collaboratore di cui però nessuno si accorge, neppure i partiti di sinistra.

Il 12 luglio Berlusconi invia un fax al «Giornale» diretto da Indro Montanelli, di cui è editore il fratello Paolo: ordina di sparare a zero sul pool di Mani pulite. La direzione del quotidiano rifiuta di supportarlo.

La notte tra il 27 e il 28 luglio esplodono le bombe a Roma e Milano. L'indomani, presso i notai Guido e Arrigo Roveda, nella milanese via Brera, il dirigente d'industria Giovanni Pilo, il professionista Dario Rivolta, il dirigente Luigi Scotti, lo psicologo Alberto Spinelli, il consulente Sergio Travaglia e il docente universitario Giuliano Urbani costituiscono l'associazione per il buon governo denominata Forza Italia.

L'associazione è senza fini di lucro – si legge nello statuto – e si propone di promuovere studi e ricerche sulla realtà economica, sociale e politica dell'Italia, incoraggia la costante crescita di una cultura democratica rispettosa dei valori tradizionali del popolo italiano ed è favorevole allo sviluppo del mercato e della libera iniziativa.

Dai quadri dell'azienda arrivano i primi nomi da gettare nell'anfiteatro della politica: Enzo Ghigo e Antonio Cherio per il Piemonte, Giancarlo Galan in Veneto, poi diventati governatori. Antonio Martusciello in Campania, Romano Comincioli in Sardegna, Gianfranco Micciché in Sicilia. Così nasce il Partito Azienda.

Aggiunge Enzo Cartotto: Berluscondi dovendo scegliere tra Partito Società e Partito Azienda, tra l'inserire in Forza Italia le decine di persone da noi selezionate […] e l'andare avanti con gli uomini della sua azienda, fece fuori noi. È il novembre del 1993. Un momento tombale nell'ordinata logica comprensione della politica.

Il racconto di Cartotto incrocia quello che da quindici anni dicono decine di collaboratori di giustizia, e cioè che fin dal 1992 Riina parla di contatti con Berlusconi e Dell'Utri. La sentenza che ha condannato Dell'Utri riferisce che «i rapporti con la galassia riconducibile a Berlusconi sono databili alla fine degli anni Settanta». Ma il boss parla di quei contatti proprio nello stesso periodo in cui il progetto del nuovo partito è allo studio. Non è certo un'altra coincidenza!

Il 31 ottobre, mentre Cartotto organizza le proprie visite al Cavaliere, Leoluca Bagarella e i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano pongono in essere l'ultimo atto della strategia stragista di Cosa nostra, facendo collocare nei pressi dello Stadio Olimpico di Roma la Lancia Thema imbottita di tritolo, bulloni e chiodi, rimasta inesplosa.

Pochi giorni dopo, a Milano, Cartotto, ormai fuori dai giochi del partito agli albori, torna ad Arcore con l'obiettivo di farsi pagare il lavoro di consulenza. Appena introduce la questione del suo pagamento il Cavaliere lo interrompe – ricorda Cartotto, un attimo, e va a prendere un registratore, l'accende e parte la base musicale. Il Cavaliere si alza in piedi in mezzo al salotto di Arcore, allarga le braccia verso il cielo, poi improvvisamente comincia a cantare l'inno di Forza Italia. In quel momento Cartotto pensa tra se: «Ormai questo non lo ferma più nessuno».

A novembre Marcello Dell'Utri ha due appuntamenti con Vittorio Mangano. Di cosa parlano quando si incontrano? Cosa possono dirsi un intelligente imprenditore e un capo mandamento di Cosa nostra, addestrato da una vita a trattare con armi, droga, sequestri e, a quanto è dato sapere, privo del minimo spessore culturale? «Mangano – dichiarerà anni dopo Dell'Utri – era solito ogni tanto venirmi a trovare a Milano, prospettandomi questioni di carattere personale, spesso attinenti a motivi di salute». Secondo alcuni collaboratori di giustizia, i due parlano invece di voti, di garanzie da dare alla cupola, di affari.

Per i giudici che hanno condannato il senatore Dell'Utri in primo grado a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa, con quegli incontri la mafia suggellava un patto con il cofondatore di Forza Italia. Mangano sarebbe dunque stato l'ambasciatore di Cosa nostra ad Arcore. A riferirlo è Salvatore Cucuzza, coreggente con Mangano della famiglia di Porta Nuova. Stando alla sentenza, l'ideatore di Forza Italia avrebbe promesso a Mangano modifiche legislative già alla fine del 1993.

nell'estate del 1994 viene emendato il decreto Biondi (il cosiddetto «salva ladri»), che seppure ritirato dopo appena una settimana contiene tra i commi qualcosa che ai «bravi ragazzi» piace molto: la riforma della custodia cautelare. Il decreto prevede il carcere solo se si può dimostrare il pericolo di fuga dell'imputato; bisogna cioè sorprenderlo con un biglietto aereo e una valigia in mano.

Ritirato il «salva ladri» a sentire Cucuzza avvengono altri incontri fra Mangano e Dell'Utri.

Mangano mi raccontò che prima del Natale del '94 si incontrò con Dell'Utri e che questi promise di presentare nel gennaio, parliamo del '95, delle proposte molto favorevoli per la giustizia, una modifica del 41bis, uno sbarramento per gli arresti per quanto riguardi il 416bis, insomma di fare qualche cosa per la giustizia.

Il pg Antonino Gatto, pubblica accusa nel processo d'appello al senatore di Forza Italia, ha trovato precise corrispondenze alle promesse che Dell'Utri fa a Mangano e che questi riporta alla cupola. E le ha messe nero su bianco in una memoria depositata agli atti. Fallito il decreto Biondi, la riforma della custodia cautelare viene effettivamente intrapresa dalla Commissione giustizia presieduta da Tiziana Maiolo di Forza Italia. Il testo dovrebbe andare in aula fra dicembre 1994 e gennaio 1995, come attestano gli atti parlamentari e le agenzie di stampa, ma tutto si blocca per la caduta del governo Berlusconi.

Cosa prevedeva questa riforma? L'esigenza della custodia cautelare non avrebbe riguardato più le indagini ma lo specifico atto di indagine, con il risultato, afferma Gatto, che «avrebbe imposto all'inquirente la necessità di svelare anticipatamente la pista seguita e comportato rischi, elevatissimi quando ci si muove nell'ambito della criminalità organizzata, per la salvaguardia dei testi e delle indagini: si pensi, per esempio, ad un omicidio di mafia cui abbia casualmente assistito Tizio, riconosciuto dall'assassino e poi chiamato ad effettuare una ricognizione di persona».

L'articolo 13 del testo avrebbe abolito la possibilità di sospendere il decorso dei termini di custodia cautelare anche per i procedimenti di mafia, con il risultato che i processi lunghi e complessi come quelli di mafia si sarebbero svolti a gabbie vuote per la scarcerazione degli imputati. L'articolo 22 avrebbe invece abolito il reato di false informazioni ai pm introdotto all'indomani della strage di Capaci, con la conseguenza – denuncia il pg Gatto – che l'omertà, linfa vitale di cui si nutre il crimine organizzato, non avrebbe potuto essere efficacemente perseguita dallo Stato.

Erano queste dunque le garanzie che Dell'Utri aveva dato a Mangano? Secondo la sentenza di primo grado che ha condannato Dell'Utri a nove anni per concorso esterno, si.

La perfetta corrispondenza tra quanto afferma Cucuzza e quanto realmente è successo appare lampante. E non può non ricordare proprio uno dei punti del papello, in particolare il punto 11, in cui Riina chiedeva l'arresto solo in «fragranza di reato».

Altra scena. Nel dare la caccia ai «mandanti a volto coperto» delle stragi del 1992, la Procura di Caltanissetta aveva ipotizzato il coinvolgimento di un certo Alfa (Silvio Berlusconi) e di un certo Beta (Marcello Dell'Utri). La stessa cosa aveva già fatto la Procura di Firenze, che li aveva indagati come possibili co-mandanti delle stragi del '93, con l'iscrizione anonima a fascicolo sotto le voci di Autore 1 e Autore 2. diversi collaboratori di giustizia hanno raccontato che i due sarebbero stati al corrente del programma stragista. L'inchiesta fiorentina viene archiviata per scadenza dei termini il 14 novembre 1998; quella nissena nel maggio 2002, su proposta del procuratore capo Giovanni Tinebra.

L'inchiesta nissena, partita nel 1998 e gestita all'inizio da un pool di magistrati (Anna Palma, Nino Di Matteo, Carmelo Petralia e Luca Tescaroli), aveva perso uno per uno i suoi protagonisti, fino a rimanere nelle mani del solo Tescaroli, che aveva scritto due bozze di richiesta di archiviazione. Il vertice della Procura, Giovanni Tinebra, non aveva però condiviso l'operato del collega.

«Riteneva necessaria una richiesta di archiviazione completamente liberatoria – ricorda Tescaroli – e io ritenevo che non potesse esserlo».

In essa infatti si sostiene che i due principali testi, i boss pentiti Brusca e Cancemi, si contraddicono fra loro nell'indicare le supposte responsabilità di Berlusconi e Dell'Utri. Una tesi rigettata dalla sentenza d'appello della strage di Capaci, dove i giudici dimostrano per tabulas che le dichiarazioni di Brusca e di Cancemi sono «convergenti» e che sarebbe stato necessario indagare ancore «nelel opportune direzioni per individuare i convergenti interessi di chi era in rapporto di reciproco scambio con i vertici di Cosa nostra».

L'inchiesta fiorentina, prima archiviata e oggi riaperta, ha rivelato come Berlusconi e Dell'Utri abbiano «intrattenuto rapporti non meramente episodici con soggetti criminali cui è riferibile il programma stragista realizzato». E sottolinea che esiste una obiettiva convergenza degli interessi politici di Cosa nostra rispetto ad alcune qualificate linee programmatiche della nuova formazione (Forza Italia): articolo 41bis, legislazione sui collaboratori di giustizia, recupero del garantismo processuale asseritamente trascurato nei primi anni Novanta.

Poi aggiunge che nel corso delle indagini «l'ipotesi iniziale (per cui erano indagati Berlusconi e Dell'Utri) ha mantenuto e semmai incrementato la sua plausibilità», ma ormai è scaduto «il termine massimo delle indagini preliminari» e non si possono più raccogliere ulteriori elementi. Dopo l'archiviazione di Firenze, le indagini sono state però proseguite dal pm Gabriele Chelazzi, che nell'aprile 2003, pochi giorni prima di morire, interroga il generale Mori.

All'epoca io non ero formale assegnatario del processo sulle stragi – ricorda in proposito nel novembre 2009 il pm Alfonso Sabella in un'intervista al sito web Antimafiaduemila – però con Gabriele ci confrontavamo spesso. Gabriele iscrisse Mori nel registro degli indagati per favoreggiamento in relazione alla vicenda della fase della trattativa che doveva portare alla revoca di alcuni 41bis alla vigilia delle stragi […]. L'aspetto tecnico (e non solo tecnico) di iscrivere Mario Mori per favoreggiamento verteva su una domanda specifica: l'avrebbe fatto per favorire la mafia o l'avrebbe fatto sostanzialmente per favorire la pacificazione nello Stato? Gabriele giustamente sosteneva di volerlo appurare da Mori e a tal proposito ribadiva: «mi venga a dire perché l'avrebbe fatto oppure invochi il segreto di Stato, e in questo caso che venga il Presidente del Consiglio a porre il segreto di Stato».

Il nome di Mori compare anche nel decreto di archiviazione della Procura nissena. Il giudice Gianbattista Tona evidenzia come le indagini abbiano appurato che un parente del generale Mori sarebbe stato socio in un'azienda di proprietà di Paolo Berlusconi.

Sempre tra i soci della Co.Ge. - scrive Tona – emergeva anche tale Giorgio Mori: i pm nella sua richiesta di archiviazione segnala un legame parentale di costui con il gen. Mori, uno dei protagonisti della trattativa con Ciancimino all'epoca delle stragi, ma conclude, condivisibilmente, che il collegamento non è sufficiente a prefigurare che l'alto ufficiale dell'Arma potesse aver avuto contatti con Berlusconi e Dell'Utri e quindi potesse essere stato «ambasciatore» di costoro nel rapportarsi con gli uomini di «Cosa nostra».

Il 5 luglio 2007 Mario Mori nega di essere parente di quel Giorgio Mori con un documento all'apparenza inoppugnabile: il fatto di avere un solo fratello di nome Alberto. Nel gennaio 2009, Mori aggiunge che il fratello ha lavorato tra gli anni Ottanta-Novanta nella security della Standa di proprietà di Silvio Berlusconi. Come mai allora, la Procura di Caltanisetta sostiene quella parentela?

La sentenza di primo grado che nel dicembre 2004 ha condannato Marcello Dell'Utri e Tanino Cinà a nove anni e sette anni di reclusione, ha sancito che la mafia è entrata in contatto, attraverso attentati e minacce e grazie alla mediazione di Dell'Utri, «con importanti ambienti dell'economia e delle finanza, agevolandola nel perseguimento dei suoi fini illeciti, sia meramente economici che, lato sensu, politici».

Deve convenirsi – commentano i giudici a proposito dell'attentato del novembre 1986 – anche attraverso l'interpretazione di questo simbolico episodio, solo apparentemente banale, come Dell'Utri (e lo stesso Berlusconi), dovessero essere perfettamente consapevoli della seconda, nascosta, valenza di Cinà e di come quest'ultimo si facesse portavoce di interessi ed aspettative di matrice mafiosa, il sottostante fondamentale che aveva potuto consentire, alla fine di novembre di quell'anno, che egli fosse subito informato, dicesse la sua e fosse ascoltato, a proposito dell'attentato […]. Nel plateale ed esagerato omaggio natalizio di Cinà a Berlusconi era facilmente ravvisabile l'interesse del medesimo Cinà, non di natura personale, a «coltivare» l'imprenditore milanese, al di là del fatto estorsivo, poiché non si è mai visto un imprenditore estorto che riceve dei regali da un emissario dei suoi aguzzini.

Forse è pure per questo che nella requisitoria i pm palermitani hanno definito Berlusconi «vittima consapevole».

La persona dell'imprenditore Silvio Berlusconi – così sintetizzano i giudici – veniva vista da Riina come soggetto che doveva pagare (alla stregua di tanti altri imprenditori), sia, anche, come soggetto che avrebbe potuto aiutare l'organizzazione mafiosa sul piano politico. Quindi, una persona che andava «coltivata», e non semplicemente estorta, nella speranza di ottenere favori.

Stando all'accusa, Dell'Utri sarebbe organico a Cosa nostra da almeno trent'anni, e avrebbe fatto da ponte tra Milano e Palermo nel progetto mafioso di entrare nel tessuto economico imprenditoriale milanese. Avrebbe agganciato per conto di Cosa nostra Silvio Berlusconi, spaventato dalla minaccia dei sequestri, e avrebbe infiltrato l'uomo d'onore Vittorio Mangano perché tenesse i contatti per conto di Stefano Bontade. A sentire i magistrati, dopo la morte di Bontade e la presa del potere da parte di Totò Riina, Dell'Utri avrebbe spostato le relazioni milanesi dalla vecchia mafia ai corleonesi. Avrebbe fatto insomma da mediatore per risolvere i problemi fra Cosa nostra e Silvio Berlusconi, la «vittima consapevole».

La promessa di aiuto politico a Cosa nostra, proveniente da un soggetto che, in quel determinato momento storico, si poneva quale organizzatore di un nuovo partito […], aveva un effetto rassicurante per il sodalizio criminale; lo orientava verso il sostegno di Forza Italia, incoraggiandolo per il sodalizio criminale; lo orientava verso il sostegno di Forza Italia, incoraggiandolo a nutrire aspettative favorevoli in un momento di crisi profonda. Siffatta condotta rafforzava Cosa nostra, ingenerando il convincimento di raggiungere obiettivi fondamentali nella sua strategia criminale. Addirittura contando sui massimi vertici della politica nazionale. Una promessa reputata, in quel frangente, serie e affidabile negli ambienti mafiosi, in quanto proveniente da un soggetto influente che, in passato, aveva dato buona prova di sé, dimostrandosi disponibile verso Cosa nostra.

Il patto fra Cosa nostra e Dell'Utri sarebbe proseguito anche durante le elezioni europee del 199. un riscontro arriva da Giuseppe Grattadauro, boss di Brancaccio, intercettato mentre sostiene che Dell'Utri ha «preso impegni» direttamente con Gioacchino Capizzi, uomo d'onore coinvolto in numerosi omicidi.

Negli anni Duemila, Dell'Utri è stato considerato, a quanto risulta da un'intercettazione telefonica, un punto di riferimento anche dai mammasantissima che si nascondono all'estero; Vito Palazzolo, per esempio, uomo d'onore con alla spalle sentenze definitive per la Pizza Connection. Palazzolo da più di quindici anni è latitante in Sud Africa, dove ha accumulato una notevole fortuna e fornito copertura a diversi latitanti. Vito è in buoni rapporti con Provenzano, cura spesso i suoi interessi in varie parti del mondo. La Procura di Palermo avvia un'indagine su di lui; Palazzolo telefona alla sorella Sara perché si metta in contatto con Dell'Utri, non sa che gli inquirenti ascoltano le seu telefonate. L'uomo d'onore chiede un intervento sul ministro della Giustizia, perché vengano bloccate le rogatorie che lo riguardano. Poi chiede che Dell'Utri intervenga sulla Cassazione per aggiustare il suo processo, lo considerava un esperto della materia: «Un “professore” che ha la massima comprensione in merito» dice Vito alla sorella. Non dovrebbe essere difficile convertirlo perché «è già convertito». Ma le richieste del boss in esilio non si fermano qui, vuole anche che si organizzi una delegazione di «tremila imprenditori» da portare in Angola, perché ci sono da fare tanti affari con il cemento costruendo strade, ponti e porti. Sara Palazzolo si rivolge a Daniela Palli, una mediatrice amica di Miranda Dell'Utri, la moglie di Marcello. Nel 2004, alla discoteca Isola di White di Buccinoso, nel corso di una festa con tra i partecipanti Mirande Dell'Utri, la signora Previti e Veronica Berlusconi, Daniela Palli informa la moglie del premier del «progetto Angola» senza però fare il nome di Palazzolo. È quanto è risultato dal racconto della sera fatto dalla Palli, le cui telefonate sono intercettate: «Vogliamo unire le forze politiche con quelle imprenditoriali, il presidente deve appoggiarlo in qualche modo» avrebbe detto Daniela Palli a Veronica. «Bisogna fare qualcosa per impedire che l'Africa finisca in mano alla Sinistra.» Sembra che l'affare vada avanti, ma le indagini su Vito Palazzolo vengono parzialmente compromesse: una talpa lo informa in Sud Africa che le utenze sono intercettate. «Non elaborare troppo su questo telefono, perché sono già a conoscenza di tutto» dice il bossa alla sorella.

Dell'Utri dunque emergerebbe ancora una volta come un terminale sicuro a cui rivolgersi, l'uomo del patto che la fonte Oriente racconta al tenente colonnello Riccio nei primi mesi del 1994.

il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, uno degli artificieri uno degli artificieri di via dei Gorgofili e dello Stadio Olimpico, il 6 ottobre 2009 rivela ai giudici di Palermo di aver saputo dai fratelli Graviano, sui diretti superiori, di un trattativa con alcuni referenti importanti. Ne era venuto a conoscenza nell'estate del '93, subito dopo l'attentato a Firenze.

Noi avevamo perplessità perché si trattava di fare morti fuori dalla Sicilia – continua Spatuzza – Graviano per rassicurarci ci disse che da quei morti avremmo tratto tutti benefici, a partire dai carcerati. In quel momento io compresi che c'era una trattativa e lo capii perché Graviano disse a me e a Lo Nigro se noi capivamo qualcosa di politica e ci disse che lui ne capiva.

Spatuzza aveva visto ancora i Graviano a Roma nel gennaio 1994, in un lussuoso bar di via veneto.

Graviano - ricorda Spatuzza- era molto felice, disse che avevano ottenuto tutto e che queste persone non erano come quei quattro crasti (cornuti) dei socialisti. La persona grazie alla quale avevano ottenuto tutto era Berlusconi e c’era di mezzo un nostro compaesano. E aggiunse: “Abbiamo ottenuto quello che volevamo, abbiamo il paese in mano, abbiamo persone serie e affidabili”.

Proprio in quelli stessi giorni del gennaio 1994, Bagarella convoca Cannella, l’uomo incaricato di fondare l’8 ottobre 1993 il movimento indipendentista Sicilia libera, e gli fa sapere di non aver più intenzione di finanziarlo. Di li a poco una sezione di Sicilia libera si trasformerà in club di Forza Italia, che poi verrà sciolto. E in quei giorni che i giornali cominciano a scrivere sui supposti contatti tra Dell’Utri e uomini della mafia: i sondaggi di Gianni Pilo informano il Cavaliere che le percentuali di Forza Italia sono in calo proprio a causa di quelle voci. Berlusconi si infuria con Dell’Utri, ma presto arriva la ciambella di salvataggio. Il quotidiano “La Stampa” scrive che il presidente della Commissione antimafia Luciano Violante avrebbe confidato a un giornalista l’esistenza di inchieste aperte su Dell’Utri e Berlusconi. Scoppia una bufera, Violante smentisce ma nessuno gli crede ed è costretto a dare le dimissioni. Forza Italia recupera i consensi, le voci di vicinanza con la mafia non hanno più effetto sull’opinione pubblica. Nel frattempo il coordinatore degli azzurri per la Sicilia occidentale, Gianfranco Miccichè, chiude alcuni club per la presenza di qualche picciotto di troppo. Dei segnali però Cosa nostra riesce a piazzarli: a una settimana dalle elezioni, qualcuno fa sventolare da una palazzina disabitata, a Capaci, paese della strage, vicino alle macerie dell’attentato a Giovanni Falcone, una bandiera con il simbolo del nuovo partito di Berlusconi, un’espressione di partecipazione popolare come tante altre, se non fosse che la palazzina è di un boss che è stato arrestato.

Ad Altofonte i volantini di Forza Italia sono uomini distribuiti da Mario Gioè, fratello di Nino Gioè, l’uomo d’onore che aveva condotto la trattativa con Paolo Bellini, morto suicida in carcere dopo che le microspie della Procura di Palermo lo hanno sentito ammettere la propria partecipazione all’assassinio di Giovanni Falcone.In seguito alle polemiche Angelo Cidignoni, che rientrato dall’esperienza parigina della Fininvest è stato nominato responsabile nazionale dei club di Forza Italia, smentisce che Gioè abbia avuto un ruolo ufficiale in Forza Italia, e respinge con sdegno le voci di contaminazioni mafiose nei club. Il 5 febbraio di quell’anno, mentre Berlusconi è ad Arcore a trattare l’accordo con la Lega in estenuanti sedute alleggerite solo dalle richieste del tifoso milanista Maroni, che si fa portare dal Cavaliere la Coppa dei Campioni per baciarla, Codignoni presenta Forza Italia ai siciliani in un affollatissimo San Paolo Palace, nella cui suite soggiornava, servita e riverita, “donna Rosalia”, la madre dei fratelli Graviano. Il proprietario è Giovanni Ienna, condannato per mafia in quanto prestanome proprio dei fratelli Graviano.

Fin qui le coincidenze. Ora le dichiarazioni di Spatuzza, secondo cui la trattativa sarebbe continuata fino al 2004. Ma è stato Dell’Utri ad averla portata a compimento? E’ da lui che don Vito si era sentito “scavalcato e fottuto”? E’ per questo che Ciancimino aveva scritto più volte a Silvio Berlusconi? Saranno le sentenze a dirlo. Intanto, ‘11 dicembre 2009, collegato in videoconferenza con l’aula di Palermo in cui si svolge il processo d’appello a carico del senatore Dell’Utri, Filippo Graviano ha dichiarato: “Non ho mai conosciuto il senatore Dell’Utri, né direttamente né indirettamente e quindi non ho mai avuto rapporti con lui”. L’altro fratello, Giuseppe, si è avvalso della facoltà di non rispondere: “Non sto bene a causa del 41 bis, ma, quando il mio stato di salute me lo permetterà, sarà mio dovere rispondere”. Un silenzio forse non privo di significato.

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