Mani pulite
21.05.2013 13:22
Arrestato in flagrante, mentre incassava una tangente, un funzionario nel settore sanità; controllava un consistente pacchetto di tessere, messe a disposizione dei leader locali di un partito di governo: comincia così la storia di Mario Chiesa, socialista, collettore di voti per Bobo Craxi, presidente a Milano del Pio Albergo Trivulzio e imputato numero uno di Mani pulite, finito in manette il 17 febbraio 1992 per una tangente di 7 milioni. Ma comincia così, esattamente così, anche la storia di Luigi Odasso, di Forza Italia, presidente dell’ospedale torinese delle Molinette, portato in carcere il 19 dicembre 2001 per aver incassato una tangente di 15 milioni. Sono passati dieci anni dall’inizio dell’indagine giudiziaria che doveva cambiare tutto, ma accadono storie che si possono raccontare oggi con le stesse, identiche parole.
Se poi ci si guarda attorno, si trovano altre vicende, maledettamente simili a quelle che i giornali raccontavano – senza enfasi, per carità, niente titoloni in prima – tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta. Decine di amministratori sono sotto accusa per la gestione delle forniture sanitarie in Piemonte, Lombardia, Toscana, Campania, Calabria, Sicilia. Centinaia di sindaci, assessori e imprenditori in tutta Italia sono sotto inchiesta per come hanno trattato l’eterno business edilizio. Politici e dirigenti degli enti pubblici preposti al controllo del volo, intercettati dopo la sciagura di Linate, hanno svelato oggi le nuove spartizioni politiche e gli accordi d’affari.
E che dire della ripresa della spesa pubblica nelle grandi opere? Le due leggi per far ripartire la costruzione di strade, ponti, trafori, acquedotti, ferrovie (la legge-delega sulle infrastrutture e il provvedimento sulle grandi opere collegato alla Finanziaria 2002) permettono che progettazione, finanziamento, esecuzione e perfino gestione delle opere siano di fatto affidate – come avviene nei Paesi del Terzo mondo – a un’unica impresa (il «general contractor»): così è appiattita la dinamica di mercato, persa la trasparenza e il controllo dei costi, così sono poste le basi strutturali per un nuovo sistema di spartizione e corruzione. In un mercato come quello italiano, ancora molto protetto, quasi chiuso alla concorrenza internazionale e povero di operatori (le imprese in grado di fungere da «general contractor» sono due o tre), è prevedibile che questi, in accordo con la politica, azzerino la concorrenza, si spartiscano il mercato e creino a cascata un sistema di appalti e subappalti precostituito e lottizzato. È la promessa di una nuova Tangentopoli. E questa volta con una magistratura priva della tranquillità ambientale e degli strumenti processuali necessari per far partire una nuova Mani pulite.
Raccontare quell’inchiesta, oggi, dieci anni dopo, diventa allora qualcosa di più che un appuntamento imposto dal calendario. Siamo tornati alla situazione degli anni Ottanta: con nuovi patti sotterranei tra la politica e gli affari; e nuove condizioni strutturali che potrebbero nutrire una nuova Tangentopoli. Ci sarà una reazione della società, uno scatto morale della politica, un effetto benefico dell’Europa? O ci vorrà, di nuovo, un intervento traumatico della magistratura? Ci sarà un nuovo Di Pietro? E i giudici riuscirebbero, questa volta, a ottenere risultati, a dimostrare che la legge è davvero uguale per tutti?
In attesa di trovare risposte alle domande sul futuro, si può tentare di rispondere almeno a quelle sul passato.
Come è nata Mani pulite?
L’arresto di Mario Chiesa, d’accordo: un amministratore colto con le mani nella marmellata, quel 17 febbraio 1992. Ma poi? Poi ci sono voluti altri ingredienti. Una certa preparazione del magistrato che aveva avviato l’indagine: Antonio Di Pietro, snobbato dai colleghi per il suo linguaggio senza congiuntivi e i suoi modi da poliziotto, conosceva già bene il sistema della corruzione, per aver fatto altre inchieste (sulle patenti facili, sulle «carceri d’oro», su Lombardia informatica, sulle tangenti Atm...). Lo aveva addirittura descritto, il sistema, un anno prima di pizzicare Mario Chiesa: nel numero del maggio 1991 di un piccolo mensile milanese, Società civile, aveva firmato un articolo in cui lanciava una formula destinata ad avere successo: «dazione ambientale». Ricordava la distinzione, imposta dal codice penale, tra corrotto (il pubblico ufficiale che accetta la bustarella dall’imprenditore) e concussore (l’amministratore che la bustarella invece la pretende). Sosteneva però che questa distinzione è superata nei fatti: «Più che di corruzione o di concussione, si deve parlare di dazione ambientale, ovvero di una situazione oggettiva in cui chi deve dare il denaro non aspetta più nemmeno che gli venga richiesto; egli, ormai, sa che in quel determinato ambiente si usa dare la mazzetta o il pizzo e quindi si adegua».
Un altro ingrediente: Di Pietro, quando arresta Chiesa, sa già tutto sul personaggio. Conosce i suoi metodi, i suoi amici, i suoi conti in banca. Aveva infatti indagato, nel corso di un procedimento per diffamazione, su un personaggio molto vicino a Chiesa, Mario Sciannameo, impresario di pompe funebri che, guarda caso, aveva l’esclusiva dei funerali dei poveri vecchietti che morivano al Pio Albergo Trivulzio. Poi, per spiegare il successo di Di Pietro, bisogna tenere presente la sua capacità di bluff.
Ma tutto ciò, naturalmente, non basta. Bisogna considerare altre cosucce che si muovevano nell’aria, in quell’ormai lontano 1992. La crisi della politica, che già da qualche anno faceva allontanare i cittadini dai partiti tradizionali e crescere l’astensionismo o il voto per nuovi gruppi (dalla Lega di Umberto Bossi alla Rete di Leoluca Orlando). E la spesa pubblica fuori controllo, che stava portando l’Italia verso la bancarotta. «Il Paese viveva in una situazione di capitalismo senza mercato, secondo la formula che piaceva tanto a Gianni De Michelis», spiega il giurista Guido Rossi.
Lo Stato, insomma, non solo controllava una larga fetta dell’economia, ma spendeva, spendeva, perché ai partiti che lo avevano letteralmente occupato interessava – più che l’utilità delle opere realizzate e l’efficienza dei servizi prestati – mantenere il consenso e portare a casa le «provvigioni» (alias tangenti) che permettevano di pagare «i costi della politica» (e dei politici). Dall’altra parte, gli imprenditori grandi e piccoli si erano organizzati per vincere gli appalti spartendosi il mercato tra loro e pagando robuste mazzette ai partiti, evitando così i noiosi impicci della concorrenza e del libero mercato.
Eccola qua, allora, Tangentopoli: non è solo il sistema delle tangenti (peraltro pesanti: 10 mila miliardi di lire l’anno, secondo i calcoli realizzati nel 1992 dall’economista Mario Deaglio); è, per le imprese, un sistema di accordi di cartello; e, per i partiti, un sistema di sperpero sistematico dei soldi pubblici. Risultato: il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo nel ’92 arriva al 118 per cento (per entrare in Europa l’Italia doveva stare sotto il 60). Insomma: il crac. Eravamo a un passo da una situazione argentina. Non poteva durare. E infatti quando un magistrato più abile e fortunato di altri dà la prima spallata, il castello di carte crolla.
Cedono, uno dopo l’altro, gli amministratori, gli imprenditori, i politici. Come le tessere di un grande domino. Anche perché, nel frattempo, il mondo era cambiato: imploso il blocco sovietico, perdono forza i partiti che anche in Italia erano legittimati dall’uno o dall’altro dei due schieramenti. Saltano quelle reti di protezione (politiche, ma anche giudiziarie: avocazioni, porti delle nebbie e ammazzasentenze) che rendevano improcessabili i potenti. E implode anche quella variante di capitalismo di Stato che era in mano ai boiardi del Caf (Craxi - Andreotti - Forlani). Cade il Muro di Berlino, ma anche il Muro di Bettino. Tutto ciò, per le vie insondabili della Storia, diventa diffusa insofferenza verso i partiti, voglia di cambiamento, tifo per i giudici, perfino giustizialismo: insomma, Mani pulite.
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