L'onorevole Palizzolo
18.05.2013 10:42
1.
Don Raffaele Palizzolo usava ricevere i postulanti la mattina nella sua casa palermitana a Palazzo Villarosa, in via Ruggiero Settimo. Arrivano portando fiori o altri doni mentre lui se ne stava a letto, seduto, con una coperta sulle spalle. C'era chi cercava un posto al comune. Ma non mancavano i magistrati e i poliziotti che aspiravano a un trasferimento, a una promozione, a un aumento di stipendio. O si trattava di persone con una cattiva reputazione che avevano bisogno di un porto d'armi o di protezione contro le vessazioni della polizia; di consiglieri comunali in cerca di una posizione influente in una commissione o in un comitato; di studenti liceali o universitari con il problema di farsi cancellare dei brutti voti che minacciavano la loro carriera scolastica.
Don Raffaele non era un uomo altezzoso, e ascoltava tutti con indulgenza; chiacchierava, si informava sulla parentela, offriva simpatia, prometteva aiuto. Le udienze continuavano mentre si lavava e si arricchiva con cura le punte dei baffi. Nel pomeriggio Palizzolo si occupava dei suoi interessi ed elargiva favori. Era proprietario terriero e affittuario di terre, consigliere comunale e provinciale, amministratore fiduciario di enti di beneficenza e banche. Dirigeva il fondo per l'assicurazione contro le malattie della marina mercantile e sovrintendeva all'amministrazione di un manicomio. Come deputato era fedele sostenitore del governo, chiunque fosse al potere.
Lo stile delle udienze mattutine di Palizzolo, che accompagnarono tutta la sua quarantennale carriera politica, era improntato a una peculiare sfrontatezza. Ma in questo tipo di potere clientelare e di costruzione di clientele politiche non c'è niente di esclusivamente mafioso, e neppure di esclusivamente siciliano. Gli stessi meccanismi di fondo sono tutt'ora osservabili in Italia, per tacere di altri paesi in giro per il mondo. C'è uno scambio di voti contro favori: uomini politici e funzionari dello Stato si appropriano di risorse pubbliche – posti di lavoro, appalti, licenze, pensioni, sussidi – e le investono privatamente nelle loro reti di sostegno e clientele personali.
Il potere clientelare, la costruzione di clientele e la corruzione non sono la stessa cosa della mafia. In effetti, la mafia non sarebbe nata se uno Stato moderno non avesse quanto meno tentato, sia pure maldestramente, di imporre in Sicilia il dominio della legge. In altre parole, la mafia è il prodotto naturale di un malcostume attentamente coltivato. Nel mondo non c'è penuria di luoghi in cui esiste la corruzione politica; ma non tutti producono organizzazioni di tipo mafioso. Né la presenza nella vita politica di una componente clientelare significa che le grandi questioni – l'economia, la democrazia, la politica estera – non contino nulla. Ciò detto, Palizzolo era sicuramente in combutta con la mafia, ed è impossibile capire la mafia senza farsi un'idea precisa di quella politica clientelare di cui egli diventò nella sua famigerata epoca il più famigerato esponente.
La politica clientelare costa cara. Fino al 1882 i costi erano relativamente contenuti: soltanto all'incirca il 2 per cento degli italiani (tutti maschi e adulti) godevano del diritto di partecipare al processo politico nazionale. Nel 1882 le cose cambiarono: i dirtti elettorali furono estesi a un quarto della popolazione maschile adulta. L'epoca della politica di massa era alla porte. D'un tratto, le elezioni diventarono più costose. Fu un momento di pericoli e di opportunità, tanto per i politici quanto per i mafiosi.
Don Raffaele Palizzolo si mostrò all'altezza della sfida, e fece del ruolo di mediatore di favori, l'occupazione della sua vita. Il centro nervoso del suo regno era il sobborgo di Villabate, ma esso si allargava sul lato sudorientale della città, includendo Caccamo, Termini Imerese e Cefalù. Aveva inoltre a Palermo e nei suoi dintorni una rete di sostegno abbastanza forte da riuscire negli anni Novanta a farsi eleggere per tre volte deputato in un collegio della zona.
Le licenze per il porto d'armi sono un buon esempio della catena di favori che legava uomini come Palizzolo alla mafia. Per ottenere la licenza era necessaria una lettera di raccomandazione di un cittadino eminente, per esempio un uomo politico. Stando così le cose, gli uomini politici barattavano queste lettere con fondi per la campagna elettorale, voti o favori.
Il grande alleato di don Raffaele era la frammentazione del sistema politico italiano. Per buona parte della storia d'Italia le linee di divisione nette – all'interno di un instabile mosaico di consorterie e di gruppi d'interesse – sono state assai poche. Entro questa cornice di frammentazione, minoranze strategicamente piazzate sono state in grado di esercitare un grande potere di pressione. E nella maggioranza dei casi la mafia e i suoi uomini politici sono stati una di queste minoranze.
Nelle condizioni che erano la norma nell'Italia di fine Ottocento, il paese non era in grado di mettere insieme le risorse politiche di fermezza e di vigilanza necessarie per smascherare personaggi come don Raffaele. I governi di coalizione, perennemente afflitti da liti interne, rimanevano di solito in carica per pochi mesi, e l'appoggio dei deputati siciliani era decisivo. Ma nell'ultimo decennio del secolo il paese fu sconvolto da una crisi talmente grave che per qualche tempo parve che l'Italia fosse destinata a sfasciarsi. E la tempesta politica avrebbe messo la mafia di fronte alla minaccia più seria mai affrontata fino ad allora.
Nel 1892 i due principali istituti di credito italiani chiusero i battenti. Più avanti nel corso dello stesso anno si seppe che la Banca Romana, una delle sei banche autorizzate a emettere moneta, aveva falsificato banconote per milioni di lire. Il denaro veniva convogliato verso i più importanti uomini politici del paese, che lo usavano per finanziare le loro campagne elettorali. Con l'economia che stava toccando il punto più basso di un lungo ciclo depressivo, sembrò che l'intero sistema finanziario fosse sul punto di crollare. Nel gennaio 1894 fu proclamata in Sicilia la legge marziale, nel tentativo di far cessare gli scontri violenti tra braccianti e proprietari terrieri. Più avanti in quello stesso anno fu messo al bando il Partito socialista.
Sotto la guida di Francesco Crispi, il primo presidente del Consiglio siciliano, il governo reagì alla crisi nel peggior modo possibile: inscenando una stravagante avventura coloniale in Etiopia. L'esito fu quello che si poteva prevedere: fu la più grande sconfitta mai subita da una potenza coloniale europea. Il paese scivolava di crisi in crisi. Nel maggio 1898 si arrivò a proclamare la legge marziale a Milano economica del Paese. L'artiglieria bombardò il convento dei cappuccini, che si pensava fosse un nascondigli di ribelli. Quando il fumo si posò, non furono trovati che pochi frati, più alcuni mendicanti che erano lì in attesa della loro minestra.
Un mese dopo i fatti di Milano fu nominato presidente del Consiglio un militare, il generale Luigi Pelloux, il quale ha una cattiva fama perché il suo governo è associato con il tentativo di far approvare un pacchetto di riforme d'impronta spiccatamente autoritaria, che avrebbero limitato la libertà di stampa, bandito i sindacati dalla pubblica amministrazione e permesso al governo di spedire al domicilio coatto le persone sospette senza processo. Ciò nonostante Pelloux non era un cieco rivoluzionario. Il suo governo nacque per gestire la transizione da quelli che erano stati gli anni più turbolenti nella breve storia dello Stato italiano a qualcosa che assomigliasse a un ripristino della normalità e in questo programma trovò posto un'offensiva contro la corruzione in Sicilia. Fu così che nell'agosto 1898 il generale Pelloux nominò un nuovo questore di Palermo, con il mandato di combattere la mafia. Nel 1900 il questore descrisse nei termini seguenti i sostenitori politici di Palizzolo:
Sono amici del Palizzolo tutti i mafiosi, i pregiudicati, coloro che costituiscono permanente pericolo per la sicurezza pubblica siccome gente dedita ai delitti di ogni genere contro le persone e le proprietà. Costoro non risparmieranno minacce, violenze e intimidazioni per costringere gli elettori onesti a votare per loro candidato... con quegli stessi mezzi che [la mafia] adopera per imporre i propri guardiani ai padroni dei fondi e le taglie ai piccoli proprietari.
Palizzolo fu il protagonista, come vedremo (in quanto imputato) del più grande processo di mafia dell'epoca. Con don Raffaele Palizzolo la mafia tornò a occupare, per la prima volta in un quarto di secolo, le prime pagine dei giornali nazionali. Molto meno noto di Palizzolo, ma altrettanto importante nell'ottica della storia della mafia, è il suo avversario, il questore di Palermo nominato dal generale Pelloux: Ermanno Sangiorgi.
1John Dickie, Cosa nostra, Storia della mafia siciliana, 2004.
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