L'inchiesta Franchetti – Sonnino e l'inchiesta parlamentare Bonfadini.

18.05.2013 10:38

 

 

L'unificazione nazionale aveva messo in evidenza i gravi problemi dello squilibrio socio-economico esistenti nell'ambito del nuovo Stato Italiano, non a caso il governo chiede nel 1875 al parlamento di approvare un progetto di legge che consenta all'esecutivo, ogni qual volta esso ne veda la necessità, di applicare «provvedimenti straordinari di pubblica sicurezza»1 nei periodi e nelle zone particolarmente caratterizzati da reati «o dove esistono associazioni di briganti, malandrini accoltellatori, camorristi maffiosi». Accanto alla rinnovata polemica politica tra democratici e moderati, tra Destra e Sinistra, si formò ben presto una sensibilità sociale più vigile per le condizioni delle varie classi sociali.

Tra le inchieste promosse nel primo ventennio del Regno d'Italia, particolare interesse hanno l'inchiesta Bonfadini del 1876, l'inchiesta sul brigantaggio e l’inchiesta privata condotta da due liberali progressisti meridionali, Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti.2

Poiché l'inchiesta di Franchetti e Sonnino apparve contemporaneamente a quella parlarmentare del Bonfadini, sorse subito un interesse polemico attorno alle due opere, insieme alla necessità di valutarne i giudizi spesso difformi, se non contrastanti.

L'inchiesta di R. Bonfadini sembrò troppo ottimistica per le sue conclusioni moderate, specie se messa al confronto con l'opera dei due giovani scrittori meridionali che avevano giudicato negativamente il ruolo del governo nella “questione meridionale”. L'inchiesta parlamentare che va sotto il nome del Bonfadini, in quanto da lui presieduta, fu condotta con criteri di ufficialità che ne limitarono alla fine i risultati: i commissari dell'inchiesta del resto si recarono nelle varie città siciliane raccogliendo quasi esclusivamente dalle autorità locali e dai proprietari le testimonianze sulle condizioni sociali e dei pubblici servizi in Sicilia.3Le testimonianze di questi notabili erano naturalmente unilaterali ed essi lamentavano semmai la tolleranza del governo nei confronti dell’opposizione politica che fomentava i disordini e il malcontento della classe contadina.

Relativamente agli aspetti geografici della “questione meridionale”, i dati raccolti dall'inchiesta erano comunque interessanti anche perché costituivano un primo dato sicuro per la conoscenza della realtà rurale, urbana e in genere fisico-antropica della Sicilia.

Lo stesso Sonnino ripeterà in parte le notizie dell’inchiesta Bonfadini: ma i giudizi e le considerazioni che Sonnino trarrà da tali notizie divergeranno non poco da quelli espressi dal Bonfadini. Inoltre va tenuto presente che, come attesta espressamente Enea Cavalieri, che seguì i due giovani autori nel loro viaggio in Sicilia, il metodo usato da Sonnino e da Franchetti era fondato sulla ricerca della verità attraverso il “cercare l'intimità di conversari riservati”.4

Il Bonfadini, nella sua relazione finale negherà l'esistenza di una vera questione sociale in Sicilia. Soprattutto l'esistenza del latifondo e il suo ruolo nell'economia e nella società siciliana, venivano considerati dal relatore come necessari, o quanto meno inevitabili, nelle condizioni fisiche e geografiche e in quelle storiche in cui si era formata la società isolana. “Qui la natura, si affermava nell'inchiesta, ha vinto con le sue forze l'efficacia della legge e della scienza. Dove il terreno si prestava a coltivazioni remuneratrici della fatica umana, dove poteva allignare la vite o il sommacco, o dove un filo d'acqua permetteva la piantagione di un agrumeto, la censuazione vinceva per sempre il latifondo. Ma in alcuni casi il latifondo vinse anche la censuazione, e fu dove le condizioni climatologiche e geologiche escludono finora le possibilità di un’agricoltura intensiva; dove la mancanza di strade allontana la speculazione onesta del ricco affittaiuolo che vi consacri il suo tempo, i suoi capitali, la sua intelligenza; dove la mancanza d’acqua e la malaria impediscono le costruzioni rurali, e dove la mancanza di case impedisce che si raccolgano acque e si distruggano i miasmi”.5

Le ragioni fisiche venivano quindi considerate come fattori predominanti dell’inferiorità sociale ed economica della Sicilia, pur consentendo il relatore sulla condanna del regime latifondistico. Il Bonfadini perciò pensava che difficilmente le condizioni del latifondo siciliano potevano essere corrette “dalle utili conseguenze della grande coltura” e ta l'altro da una definizione mediocre di mafia come «solidarietà istintiva, brutale, interessata, che unisce a danno dello Stato, della legge e degli organismi regolari, tutti quelli individui e quegli strati sociali che preferiscono trarre l'esistenza e gli agi, anziché dal lavoro, dalla violenza».6

“Il timore che la costruzione unitaria poggiasse sul vuoto; - scrive Massimo L. Salvadori - il desiderio di rendersi conto esattamente della realtà, che i ceti colti in fondo non conoscevano, mutarono i due giovani in solitari pellegrini alla ricerca della verità, secondo la convinzione che dalla verità nasce e si fonda solidamente la libertà, la quale a sua volta si fa madre di verità e progresso civile.7La replica quindi, spetta ai giovani intellettuali toscani.

Sonnino tratta della condizione contadina, critica come iniqui i patti agrari, propone la mezzadria toscana quale strada obbligata per un abbassamento del tasso di violenza e di conflitto nelle relazioni tra le classi.8 Franchetti non affronta ex professo il problema della mafia, ma risale a quelli generali della politica e dell'amministrazione locale, di una classe dirigente abituata a considerare le istituzioni strumento di sopraffazione, incapace di sollevarsi fino alla concezione moderna della cosa pubblica dove l'esercizio del potere passa attraverso l'impersonalità della legge e gli egoismi dei ceti superiori vengono contemperati da una paterna sollecitudine per gli interessi dei ceti subalterni.

Il sostantivo mafia – afferma Franchetti – ha trovata pronta una classe di violenti facinorosi che non aspettava altro che un sostantivo che l'indicasse, ed alla quale i suoi caratteri e la sua importanza speciale nella società siciliana davano diritto ad un nome diverso da quello dei volgari malfattori di altri paesi.9 Però il termine non rappresenta il «fatto sociale completo», ma solo la «manifestazione parziale» di un fenomeno culturale più generale. Nel riferire l'aggettivo mafioso non necessariamente a un criminale, ma a un qualsiasi individuo che voglia «fare rispettare i propri diritti,astrazione fatta dai mezzi che adopera a questo fine», il giovane studioso toscano richiama il senso comune isolano, «giudice competente di questa materia».10

Assolutamente non banale è la raffigurazione delle origini sociali dei briganti, provenienti dal ceto medio, nonché il giudizio sui nobili, «vero fondamento della maffia», il quale non si trova in vero contrasto con la tesi per cui gabellotti e mafia valgono a limitare la libertà d'azione dei proprietari.11 La mafia è un innocuo codice culturale, ovvero si tratta di una pericolosa organizzazione, ma alimentata dagli altri, e in particolare dal governo.

La dialettica tra comportamento mafioso e mafia per Franchetti spiega le solidarietà ideologiche che contro l'autorità costituita legano i malandrini e la popolazione, ivi compresa quella classe dei proprietari (o classe media) sulla quale in tutta Europa riposa la forza delle istituzioni liberali. Perché i possidenti siciliani non si ribellano a un ordine di cose che in ultima analisi ne diminuisce il potere quando, almeno in apparenza, ad essi basterebbe «agire d'accordo per tre giorni per fare sparire il brigantaggio»?12 L'analisi di Franchetti sulla «democratizzazione della violenza» nella sostanza mostra come egli sia ben conscio del fatto che le chiavi della questione non stanno più, tutte, nella mani della classe dirigente tradizionale. Egli anzi centra la sua analisi sulla provincia, sul ruolo che nella Sicilia post-feudale e post-unitaria gioca un élite paesana che si basa sul controllo delle risorse locali, economiche (terreni demaniali ed ex feudi privati) e politiche (sistema elettorale nazionale e municipale). «Stanno formandosi quasi pubblicamente dei patrimoni col manutengolismo e colla complicità negli abiegati»13, annota Franchetti senza fare i nomi di quelli che sono stati i suoi interlocutori.

Franchetti lavora a una costruzione intellettuale che, come spesso accade, è grande perché unilaterale se non faziosa. In essa la mafia deve apparire l'elemento rivelatore, allarmante e ributtante, di un contesto sociale tutto inadatto ai principi liberali sui quali il mondo civile si basa. In questo egli palesa sino in fondo epigono della vecchia destra la quale, pur rivendicando la teoria dl «discentramento amministrativo» e dell'autogoverno dei proprietari, aveva preferito il centralismo perché convinta dell'immaturità delle classi dirigenti, specialmente meridionali14; ancor più evidente nel 1874-75, il momento in cui queste pretendono una piena partnership nel governo della nazione. L'Inchiesta rappresenta dunque la riproposizione ad altro livello dell'operazione fatta con le leggi di PS. Solo che Franchetti non propone per la Sicilia «rimedi» eccezionali, ma una diversa forma di governo, lucida e terribile come ogni utopia reazionaria. Sono «i Siciliani d'ogni classe e ceto (…) ugualmente incapaci d'intendere il concetto di Diritto». Essi vanno trattati come malati che si lamentano ma che «non si rendono conto del come e del perché» del loro male; infatti non possono «intendere il fine ultimo dei provvedimenti presi o da prendersi». Lo Stato non deve utilizzare nessuno dei canali di comunicazione che offre questa società infetta: a nessun livello il suo personale va reclutato tra i siciliani, e naturalmente, per «portare la Sicilia alla condizione di un popolo moderno», il governo non deve «in niun caso» tenere conto dei desideri, delle proposte, soprattutto delle proteste dell'opinione pubblica e dei deputati isolani.15

Molti recensori siciliani criticarono aspramente l'autore, parlando d'ignoranza e di pregiudizi. In parte, quest'accoglienza era imputabile. Innanzitutto, le sue proposte per risolvere il problema della mafia erano stravaganti e di stampo autoritario: i siciliani non dovevano avere nessuna voce in capitolo su come amministrare l'ordine pubblico dell'isola. Franchetti era addirittura convinto che l'intero loro orizzonte mentale fosse a tal punto pervertito, che attribuiva alla violenza un «valore morale», e consideravano l'onestà eticamente sbagliata. Sembrava non capire che molto spesso i siciliani si accordavano con i mafiosi perché erano impauriti e non sapevano in chi riporre loro la fiducia.

1Su cui cfr. L. Masciulli Migliorini, Il mondo politico meridionale di fronte alla legge di PS del 1875, in «Nuova rivista storica», 1979; F. Renda, Storia della Sicilia, II, Palermo 1985.

2L. Franchetti S.Sonnino - La Sicilia nel 1876, Firenze, Barbera, 1877, divisa in due parti: la prima redatta dal Franchetti, sulle condizioni politiche e amministrative, l'altra redatta dal Sonnino sui contadini. L'opera è stata ristampata presso l’editore Vallecchi di Firenze nel 1925, con prefazione di E. Cavalieri e successivamente nel 1974, presso lo stesso editore.

3P. Ardizzone - L'inchiesta Parlamentare in Sicilia del 1870 in “Quaderni del meridione” Palermo, Anno I, n° 1-2, Gennaio-Marzo, Aprile-Giugno 1958. Si veda anche il numero speciale dei “Nuovi quaderni del meridione” Anno XII (1975), Luglio-Dicembre, n°5I-52 dedicato interamente al centenario dell'inchiesta Sonnino - Franchetti in Sicilia.

4S. Sonnino - I contadini in Sicilia, op. cit., vol. I, p. XV.

5R. Bonfadini - Relazione della giunta per l'inchiesta sulle condizioni della Sicilia nominata secondo il disposto dell’art. 2 della legge 3 luglio 1875, Roma 1876, p. 1077 (archivio centrale dello Stato, l’inchiesta sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia, 1875-6, Bologna, Cappelli, 1969).

6Cito dalla bozza di Bonfadini, seduta del 25 marzo 1876, in Inchiesta; temi ovviamente ripresi nella relazione finale.

7M. L. Salvadori - Il mito del buon governo. La questione meridionale da Cavour a Gramsci, Torino, Einaudi, 1963, pp. 72-3

8S. Sonnino, I contadini in Sicilia, in Franchetti-Sonnino, Inchiesta cit.,II.

9Franchetti, Condizioni politiche cit., p. 93.

10Lupo, Storia della mafia, p. 86.

11Ibid., p. 196.

12Ibid., p. 31.

13Franchetti, Condizioni politiche cit., pp. 33-4.

14R. Romanelli, Il comando impossibile, Bologna 1988.

15Si vedano le pp. 218-39 di Franchetti, Condizioni politiche cit., e per le citazioni le pp. 219,221,222 e 224.

 

 

—————

Indietro