Le leggi per i «bravi ragazzi»

21.05.2013 13:31

 

Che ci sia stato un calo della tensione nella lotta a Cosa nostra è un fatto. Non poteva che essere così.

La gente ha diritto a dimenticare – ha detto Gian Carlo Caselli – perché il diritto di dimenticare fa parte del diritto a una vita normale. Non si può vivere in un lutto permanente, in uno stato di mobilitazione permanente.

I governanti, però, non hanno il dovere di non dimenticare. E invece c'è chi ha coltivato la cultura dell'amnesia, del quieto vivere, e inventando lo slogan del «paese normale» si è scordato di farlo diventare davvero normale, il paese.

L'abbassamento della guardia nella lotta alla mafia è frutto di una serie di «sentimenti» della classe politica: uno è l'ineluttabilità, un altro è l'interesse, il terzo è l'insipienza. Insieme si sono mischiati, con il risultato che se la repressione riguarda la bassa macelleria mafiosa va tutto bene; se invece riguarda le regole di un sistema che ha consentito a Cosa nostra di diventare l'industria numero uno in Italia, allora qualcosa al consenso della repressione viene a mancare. E non si tratta certo di non elevare critiche all'operato della magistratura, ma di decidere politicamente i legami di un passato ingombrante: argomento che non ha neppure sfiorato le menti dei segretari di partiti. Così, Riina e soci sono diventati i parafulmini di quanto di terribile è avvenuto.

Tra il 1995 e il 2001 il Parlamento ha approvato un po' di norme che hanno fatto respirare Cosa nostra.

Nell'agosto del 1995 è stata abolita la legge che consentiva l'arresto in flagranza di chi affermava il falso davanti al pubblico ministero.

Nel 1997, un'azione legislativa del centrosinistra ha sgretolato, polverizzandoli sul territorio, i corpi speciali di polizia (Sco), carabinieri (Ros) e guardi di finanza (Scico). Poi nel 1998, proprio come richiesto da Riina nel famigerato papello, sono state chiuse le carceri di Pianosa e dell'Asinara, e con il pretesto della privacy si è imposta la distruzione dei tabulati telefonici più vecchi di cinque anni, rendendo così difficilissimi inchieste come quelle sugli esecutori e i mandanti degli attentati del '92-'93.

Nel 1999 il Parlamento tenta addirittura il colpaccio con la proposta di cancellare l'ergastolo, consentendo agli imputati di qualsiasi reato, stragi comprese, la possibilità di accedere al rito abbreviato: chi vi avesse fatto ricorso avrebbe avuto diritto allo sconto di un terzo della pena rischiando al massimo trent'anni, che con i vari benefici di legge sarebbero divenuti – tranne rare eccezioni – meno di venti. Ma il progetto cade quando il 23 ottobre 2000, nell'aula bunker di Firenze, Salvatore Riina, Giuseppe Graviano e altri boss condannati in primo grado all'ergastolo per le bombe di Milano, Firenze, Roma chiedono di poter usufruire della nuova norma: le proteste dei magistrati e dei familiari delle vittime fanno saltare tutto. Il nuovo esecutivo, con a capo Giugliano Amato e Piero Fassino come guardasigilli, vara un decreto che mette una pezza alla situazione, riconfermando il carcere a vita per gli stragisti e gli assassini mafiosi.

Pure sul fronte dei pentiti succede qualcosa. Centrosinistra e centrodestra, in perfetta sintonia, riformano la legge sui collaboratori di giustizia, lasciando così cadere un'altra delle conquiste pagate con la morte di Falcone e Borsellino; gli effetti delle nuove norme si sarebbero visti solo in futuro, quando gli sbarramenti imposti dalla riforma avrebbero fatto crollare il numero dei collaboratori.

E ancora: il 41bis viene depotenziato: vengono rivisti gli articoli 513 e 238 del codice di procedura penale, dando facoltà ai testi e ai collaboratori di giustizia di avvalersi del silenzio. Dopo la revisione del 513, richiesta a gran voce dalle lobby degli avvocati che difendono boss e imputati eccellenti, nessuna disposizione viene varata a tutela dei cittadini non mafiosi che testimoniano nei processi di mafia, nessuna iniziativa viene adottata per rendere operativa l'anagrafe dei conti e depositi bancari prevista dal 1991 su suggerimento, tra gli altri, di Giovanni Falcone.

Infine, una direttiva del Csm stabilisce un limite di nove anni alla permanenza di un giudice antimafia nella stessa procura.

Questa «disattenzione» è stata definita «la freddezza del garantismo ulivista». A essa fanno seguito dal 2001 le leggi del governo Berlusconi, che cancellano le rogatorie, agevolano il rientro dei capitali illeciti, limitano le intercettazioni e promuovono lo scudo fiscale. Tra le piaghe della della riforma del processo penale il ministro della Giustizia Angelino Alfano, ha proposto anche la modifica dell'articolo 190, il quale prevede la possibilità illimitata per la difesa di sentire testimoni senza filtro del giudice: se il mafioso chiedesse di ascoltare tutti coloro che sono sull'elenco telefonico della città, i magistrati sarebbero obbligati a farlo. Tra i tempi richiesti dalle notifiche e quelli delle audizioni, i processi cadrebbero in prescrizione prima di iniziare. Una manna dal cielo per la mafia.

Eppure, prima del proclama di Bagarella, gli avvocati penalisti meridionali qualcosa hanno tentato.

Il 23 gennaio 2002 viene depositata in Parlamento una proposta di legge i cui primi firmatari sono tre avvocati: il deputato di An Sergio Cola, eletto a San Giuseppe Vesuviano e difensore di alcuni presunti camorristi; il parlamentare di Forza Italia Giancarlo Pittelli, un avvocato calabrese che annovera tra i propri assistiti 'ndranghetisti, massoni e imputati per tangeti; e il nuovo vicepresidente della Commissione giustizia alla Camera, il principe del foro palermitano Nino Mormino.

La loro proposta prevede «l'avviso di garanzia immediato, l'arresto solo nel caso di reati gravissimi e l'inutilizzabilità delle sentenze passate in giudicato». Se la legge fosse passata, tutti i processi e le indagini antimafia, ma anche molte altre inchieste, sarebbero state azzerate: gli indagati sarebbero stati subito informati delle procedure in corso, rendendo inutili intercettazioni, pedinamenti e utilizzo di infiltrati. Anche l'esistenza stessa della mafia sarebbe stata messa in dubbio: senza poter tenere conto delle sentenze del passato, in ogni dibattimento si sarebbe dovuto dimostrare che in Sicilia, in Italia, esiste e opera un'organizzazione chiamata Cosa nostra. Un regalo ai mafiosi che però non passa a causa delle proteste. E pensare che i picciotti su quegli avvocati avevano investito: Giuffrè racconterà ai magistrati che la scelta di appoggiare la candidatura di Nino Mormino era stata sponsorizzata proprio da Provenzano. Un'altra proposta di legge è la Pepe–Saponara del 21 novembre 2001, con cui si introduce una modifica al codice di procedura penale e – in nome della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali nonché del diritto a un processo equo – si dispone la revisione del processo nel caso l'imputato non abbia potuto controinterrogare il testimone d'accusa che ha reso le dichiarazioni solo in sede istruttoria.

Alla convenzione europea fa anche riferimento il disegno di legge presentato nel 2006 e ancora nel 2008 da Gaetano Pecorella. Sembra proprio ricalcare le proposte di Vito Ciancimino quando emendava il papello di Riina e immaginava il ricorso a Strasburgo per annullare il maxiprocesso.

E a proposito di don Vito, non si può ignorare la similitudine della sua idea di elezione popolare dei giudici con il progetto leghista più volte presentato al Parlamento. Una bella trovata eleggere i giudici in un territorio in cui le mafie controllano quasi metà del paese e investono nell'altra.

Ma nel 2002 qualcosa si è rotto. Le leggi più attese da Cosa nostra non arrivano. «Non ci faremo intimidire», sentenzia Berlusconi. E ottiene il voto e il plauso dell'intero Parlamento rendendo irreversibile il 41bis. Ma è tutto inutile, perché il carcere duro non esiste più, come emerge nel 2004 dopo un'inchiesta condotta dalla Commissione antimafia. Oggi picciotti, boss e gregari godono dell'ora d'aria, socializzano, possono incontrarsi in gruppi di quindici. Sono detenuti come gli altri, solo con qualche telecamera in più puntata addosso.

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