La «setta» del barone Turrisi Colonna: Network e organizzazione.

18.05.2013 10:23

 

La storia del dottor Galati ci serve come chiave di lettura per capire come la mafia si muoveva sul territorio; infatti da Palermo, vedremo emergere con maggiore chiarezza qualcosa che ci consente di trovare più evidenti collegamenti tra passato e presente. Partiamo da un network, un reticolo di relazioni che dalla capitale si estende verso la sua vasta provincia, una catena che lega alcuni personaggi.

Il primo anello corrisponde ad un Antonio Giammona, colui che appare il maggior esponente della mafia palermitana ottocentesca a capo della cosca dell'Uditore dagli anni settanta fino alla fine del secolo.

Giammona nasce nella borgata di Passo di Rignano intorno al 1819 e si forma nella temperie rivoluzionaria, è «poverissimo» sino al '48 ma , «briganteggiando sotto il vessillo della rivoluzione», diviene poi affittuario di giardini, proprietario di terreni e immobili acquistati nelle vendite demaniali del periodo post-unitario, nonché titolare di un'azienda pastorizia, per un patrimonio stimato nel 1875 attorno alle 150 000 lire. In tempo di suffragio ristretto, egli controlla una cinquantina di voti. La sua carriera vive la svolta decisiva nel 1860 quando, come capitano della guardia nazionale, si segnala tra i protagonisti del «ritorno all'ordine» nell'hinterland; ancora in favore dell'ordine si schiera nel '66. Da questo momento, afferma compiaciuto il suo avvocato, Francesco Gestivo, «nel manco assoluto di pubblica sicurezza ufficiale» Giammona utilizza la sua «autorità morale» per mettersi alla guida di una «lega degli abbienti contro i non abbienti».

Dunque nei dintorni di Palermo è formata come una specie di guardia nazionale, e il Giammona come gli altri proprietari di giardini, gabellotti e altri che sono nella stessa condizione si sono associati e sono prevalsi colla loro unione sino al punto di non fare succedere delitti, né reati, né scrocchi. E che ne è successo? È successo che hanno riscosso l'odio di coloro che non hanno potuto fare quello che hanno fatto loro; e quindi le denunce contro di loro, li han dipinti come persone facinorose, mafiose, sospette.1

Da Giammona si dipanano tre fili: verso il basso – guardiani, ladri, estortori, briganti,poliziotti; verso i suoi pari – gli altri leader della mafia: il capo-brigante Angelo Pugliese,i grandi gabellotti Guccione; verso l'alto – gli uomini eminenti che lo proteggono e che egli protegge. Questo network, di dimensione provinciale, ha poco a che vedere con il reticolo delle solidarietà parentali, clientelari e amicali, che, secondo tanti scienziati sociali2 corrisponderebbe alla cosca paesana, l'unica forma possibile di organizzazione mafiosa. Giammona può dare appunto «rifugio e protezione» nella sua zona a diversi latitanti, però d'avanti ad un tentativo di estorsione messo in atto da costoro contro Francesco Paolo Morana (fratello di un deputato) e il barone Dionisio Maggio non esita a perpretare una vera strage tra i suoi indisciplinati ospiti.3

Il filo che verso l'alto si dipana da Giammona porta soprattutto al barone Nicolò Turrisi Colonna, grade proprietario di non antichissimo status, moderno e illuminato nella gestione delle sue aziende, cultore di studi agronomici, patriota prima dell'Unità e poi esponente di punta della sinistra moderata, senatore e sindaco di Palermo; il quale rappresenta il secondo anello della nostra catena.

Nel '60 lo troviamo a capo della guardia nazionale cittadina nella quale Giammona è ufficiale: un rapporto rimasto solido anche nel periodo seguente, sino agli attestati di benemerenza rilasciati nel '75 dal senatore al capo-mafia per la prima volta nei guai con la giustizia.

La sera del 30 giugno 1863, Nicolò Turrisi Colonna, barone di Bonvicino, stava ritornando a Palermo, dopo una giornata trascorsa nelle sue tenute. Come si usava allora, il nobiluomo viaggiava con carrozza e cocchiere, scortato da alcune guardie personali. Era appena arrivato tra la Noce e l’Olivuzza, che allora erano ancora «Conca d’oro», quando, all’improvviso, da dietro alcuni alberi di limoni, che fiancheggiavano la strada, cinque uomini gli spararono addosso, colpendo fortunatamente solo i cavalli. Turrisi Colonna e il cocchiere estrassero le rivoltelle e risposero al fuoco. Sparò con la lupara anche una sua guardia del corpo, che ferì uno degli aggressori. Vista fallire la sorpresa, i delinquenti si dileguarono nel buio, trascinandosi dietro anche il compagno ferito.

Non si seppe mai chi fossero gli aggressori e perché avevano attentato alla vita del barone palermitano. Lo stesso Turrisi Colonna, che l’anno successivo avrebbe pubblicato uno studio, intitolato «Cenni sullo stato attuale della Pubblica sicurezza in Sicilia», per pudore (o per altro) non accennò nemmeno di passaggio all’agguato subito nell’estate precedente. Eppure, già allora, era una delle personalità più in vista di Palermo e della Sicilia, potendo vantare un invidiabile «pedi- gree» di patriota e ragguardevoli incarichi politico-istituzionali. Tra l’altro, nel 1863, quando subì l’attentato, non era un uomo qualunque, ma un parlamentare del Regno d’Italia.

Nel suo «pamphlet» del 1864, Nicolò Turrisi Colonna affrontò il tema dell’insicurezza pubblica nell’isola, provocata da una «setta» costituita da ladri di campagna e di contrabbandieri di città: «uomini arditi, adatti alle armi...».

Turrisi Colonna riteneva che questa setta fosse nata circa vent'anni prima. In ciascuna zona reclutava i suoi affiliati tra i contadini più svegli, tra i campieri delle tenute intorno a Palermo e nelle legioni di contrabbandieri che facevano arrivare in città frumento e altre derrate pesantemente tassate aggirando gli uffici doganali dalle cui esazioni Palermo dipendeva per le sue entrate. I membri della setta avevano segnali speciali che usavano per riconoscersi l'un l'altro quando trasportavano attraverso la campagna il bestiame rubato fino ai macelli cittadini. Alcuni si erano specializzati nell'abigeato, altri nel trasporto degli animali e nella rimozione dei marchi che ne identificavano la provvenienza e altri ancora nella macellazione clandestina. In certi luoghi la setta era così ben organizzata, grazie anche alla protezione politica che riceveva dalle malfamate fazioni che dominavano il governo locale, che era in grado di terrorizzare qualunque cittadino. Anche tra gli onesti c'era chi si rivolgeva alla setta nella speranza che riuscisse a introdurre nelle campagne almeno un sembiante di ordine.

Animata dall'odio per la brutale e corrotta polizia borbonica, la setta aveva offerto i suoi servigi alle rivoluzione del 1848 e del 1860. Come molti altri violenti, i membri della setta avevano un preciso interesse nelle fasi rivoluzionarie, perché offrivano l'opportunità di spalancare le porti delle prigioni, dare alle fiamme le carte della polizia ed eliminare, col favore della confusione, poliziotti e informatori. La setta sperava che un governo rivoluzionario avrebbe concesso un'amnistia ai “perseguitati” dal vecchio regime, creato creato nuove milizie che avrebbero avuto bisogno di reclute agguerrite, e assegnato posti agli eroi della lotta per il rovesciamento del vecchio ordine. Ma la rivoluzione del 1860 aveva fruttato ben pochi benefici di questo tipo, e la risposta indiscriminatamente spietata del governo italiano al dilagare della criminalità ebbe il solo effetto di accrescerela propensione della setta ad agitare le acque.

Fu solo quattro mesi dopo la pubblicazione del rapporto di Turrisi Colonna che la setta acquistò il suo nome, ovvero la parola “mafia” fu messa per iscritto la prima volta. E sulla base di ciò che oggi sappiamo della mafia, la descrizione della setta fatta da Turrisi Colonna ha un suono singolarmente familiare: una setta che disponeva di “assemblee giudicanti” per decidere le sorti di qualcuno di loro che aveva violato le regole, di rituali d'iniziazione e parole d’ordine, e che aveva forti addentellati nella società.

Nel dibattito politico dell’epoca, Turrisi Colonna non si schierò né con gli esponenti della Destra storica, secondo cui quell’organizzazione criminale era costituita (o, comunque, incoraggiata) dall’opposizione, né con quest’ultima che non perdeva occasione per accusare il governo di esagerare i problemi dell’ordine pubblico per criminalizzarla. Turrisi Colonna consigliava al governo di non rispondere alle azioni della setta con la con «la forca» e il «carnefice», ma con riforme in grado di suscitare tra i siciliani «un secondo civile battesimo».4

Il barone di Bonvicino fu, dunque, un liberale nel senso vero della parola? Così potrebbe sembrare a prima vista. Ma quello che accadde poco più di dieci anni dopo, butta un’ombra su questa figura di gentiluomo.

Il 1° marzo 1876, arrivarono a Palermo Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino. Una delle prime persone che vollero incontrare nel capoluogo dell’isola fu proprio Nicolò Turrisi Colonna, considerato un esperto della «setta» dei facinorosi. Ma ecco cosa scrissero sul suo conto, nel chiedere ad un loro amico una lettera di presentazione per il barone: «Qui lo dicono legato colla maffia – ma questo non c’importa, e si vorrebbe sentire quello che dice... Guardi di non dire a nessuno a proposito del Barone Turrisi quello che le dico più sopra intorno ai supposti suoi legami colla maffia. Qualche suo amico potrebbe scriverglielo, e questo ci farebbe un brutto servizio»5.

Molti elementi suggeriscono che Turrisi Colonna non fosse in realtà il capo della mafia, ma l’uomo che forniva un’essenziale protezione politica ai più importanti e spietati mafiosi di Palermo, il rappresentante di un gruppo sociale e politico che ha acquisito un collegamento con i facinorosi e ha deciso che bisogna servirsene anche dopo la rivoluzione. Le voci sui suoi legami con la mafia erano largamente diffuse; a Roma, nelle cerchie della Corte, perfino membri del suo raggruppamento politico esprimevano riserve su di lui.

Un'interpretazione meno generosa è che Turrisi Colonna non sia mai stato una vittima. È possibile che il suo rapporto con Giammona fosse basato più sulla deferenza che sull'intimidazione. Forse Turrisi Colonna fu soltanto il primo di una lunga serie di uomini politici italiani le cui azioni, in materia di mafia, non andavano d'accordo con le parole. Malgrado la su sofisticatissima struttura e l'insidiosa efficacia del suo codice d'onore, la mafia siciliana non sarebbe stata niente senza i legami con uomini politici come Turrisi Colonna. Tirando le somme, le sarebbe servito ben a poco corrompere poliziotti e magistrati se le autorità sovraordinate agli uni e agli altri si fossero dedicati alla difesa imparziale del dominio della legge. E nella contabilità della mafia un politico amico è tanto più utile quanto più grande è la sua credibilità. Se per diventare credibili bisogna tuonare contro il crimine, o effettuare diagnosi dello stato dell'ordine pubblico in Sicilia, nessuna obiezione.

Gli scambi della mafia con i politici avvengono in una moneta che di rado è fatta della stessa materia degli atti parlamentari e dei codici. Si tratta piuttosto di metallo pregiato, dell'oro dei piccoli favori: lasciar trapelare notizie sui contratti governativi o sulle vendite di terra, spedire inquirenti troppo zelanti a far carriera fuori dall'isola, posti nel governo locale assegnati agli amici. Così in pubblico Turrisi Colonna poteva guardare alla setta con distacco e con un interesse scientifico, analizzandola dall'alto del suo prestigio intellettuale e sociale. Ma in privato, lontano dalla sfera del dibattito pubblico, uno stretto rapporto con uomini come Giammona era essenziale ai suoi interessi d'affari e alla sua base di consenso politico.

Comunque stessero le cose tra Giammona e Turrisi Colonna, la rivolta di Palermo scoppiata due anni dopo la pubblicazione del pamphlet de barone fu probabilmente una tappa importante nell'evoluzione dei loro rapporti. Nel settembre 1866 bande armate marciarono di nuovo sulla città di Palermo. Il reparto della Guardia Nazionale affidato a Turrisi Colonna e posto sotto il comando di Antonino Giammona si oppose alla ricolta. In passato Giammona, come molti altri uomini della violenza, aveva scommesso sulla rivoluzione; ma ormai aveva capito che lo Stato italiano era un'entità con cui si poteva fare affari.6Palermo è la «città della rivoluzione», ma è anche una città dove – secondo la malevola interpretazione dei funzionari borbonici - «vivono 40 000 proletari, la cui sussistenza dipende dal caso o dal capriccio dei grandi».7 Il rapporto tra facinorosi e grande possidenza palermitana è l'elemento decisivo nel caratterizzare storicamente le origini della mafia.

 

1Inchiesta Bonfadini, pp. 462 - 3

2In particolare cfr. Hess, Mafia cit. e Blok, La mafia di un villaggio siciliano cit.

3ASPA, GP. 1876, B. 35, F.6, il questore al procuratore del re, 21 settembre 1875.

4John Dickie, Cosa nostra, Storia della mafia siciliana, 2004.

5Sonnino, Lettere.

6Da Passano, pp. 130-32

7Ancora una relazione di Calò Ulloa, 25 aprile 1838, in Pontieri, Il riformismo.

 

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