La requisitoria

21.05.2013 12:56

 

Con i primi giorni di Aprile del 1987, venne il momento della requisitoria del Pubblico Ministero. A Giuseppe Ayala, lo Stato affidava il compito di sintetizzare il lavoro investigativo di anni. Andava esposto nella forma più persuasiva per la giuria, ma anche più inattaccabile dalle difese e in grado per solidità e meticolosità dei riscontri, di resistere ai successivi gradi di giudizio. Per ognuna delle otto udienze consecutive occupate dalle richieste della accusa, Ayala parlò per cinque o sei ore ininterrotte. Si trattò di uno sforzo intellettivo, fisico e nervoso assoluto, ma il professionista e l’uomo diedero il meglio di se.

Per la prima volta in un aula giudiziaria italiana venne rivelata la struttura ed il funzionamento di Cosa Nostra concepita come la conosciamo oggi, corredando il tutto di dati e prove minuziosamente documentati.

Si espose la pratica del giuramento e i dettagli del rituale di iniziazione con la puntura al dito del candidato. Questi mentre il sangue fuori esce tiene in mano una figura sacra, «la Santuzza», che una volta macchiatasi del rosso liquido, viene incendiata al pronunciare di una frase ricorrente che può così riassumersi: «Le mie carni possano bruciare come questa immagine sacra se non manterrò fede al giuramento». La sacralità del momento è certificata dalle simbologie coinvolte: il sangue, il fuoco e il sacro. Nel codice mafioso il giuramento segna l’appartenenza a vita ad una nuova espressione di umanità. Una specie di individui che si distaccano moralmente e giuridicamente dal resto della società, animati da regole militari, morali, sociali e d’onore proprie.

Onori e oneri dell’affiliazione confluiscono in scelte dalle conseguenze assolute e radicali. Il mafioso entra a far parte di un ordinamento giuridico che lo obbliga alla segretezza e alla fedeltà pena la morte, che gli impone il delitto per nemici, trasgressori o figure che per la loro debolezza espongono l’organizzazione a rischi potenziali. La morte non per diletto, ma per «necessità» è «l’asse portante della vita di Cosa Nostra». Non esistono carceri, programmi rieducativi, o appelli per chi tradisce il giuramento.

Prima della definitiva accettazione, l’individuo è sottoposto ad un periodo di osservazione per valutarne i requisiti e la presenza di “ombre” di natura comportamentale o familiare, quali il coraggio, la capacità di uccidere o la presenza di “sbirri” o di “corna”, nel ristretto ambito familiare.

Il giudice Ayala si sofferma sulla organizzazione gerarchica di una struttura capace di assumere a ruolo di stato nello stato, di scorrere parallela e intersecata all’istituzione ufficiale. Un organismo libero da ideologie politiche, ma ipocritamente fondato nei valori della religiosità cristiana. La Cupola o Commissione costituisce il vertice dell’organo direttivo, che si dirama in appendici territoriali quali le «famiglie», munite di eserciti composti da «uomini d’onore» o «soldati». Essendo il suo unico fine, quello di rastrellare ricchezza con ogni mezzo, la Mafia è riuscita nell’oltre suo secolo di vita a camminare a braccetto di quelle porzioni di istituzioni che ad essa si sono vendute, in un mutuo rapporto di interessi politico economico.

Ma il radicamento così marcato di quello che Ayala definisce un «contro-potere», ha origini storico ambientali antiche. Il consenso di larghe fette del popolo è da sempre sì fondato su paura e intimidazione, ma anche dalla diffusione di una ideologia che si appoggia sulla strumentale mistificazione del senso della famiglia e dell’amicizia, nonché nella natura insulare degli abitanti. Un popolo che si è storicamente sentito lontano dal potere centrale, che questo fosse Roma in epoca recente, o Napoli, La Mecca e Atene, marciando a ritroso nella storia.

La Mafia è divenuta una sorta di organo supplente del distante potere centrale, con sue regole fortemente radicate alla gente e alle tradizioni, capace di scambiare la soluzione dei suoi problemi quotidiani, con la fedeltà ad una organizzazione, che un secolo e oltre or sono, aveva connotati ben diversi dalla indiscriminata macchina di morte che si conosce oggi. Ella si è trasformata assecondando le ere, mutando ed estendendo la rete collettiva dei suoi affiliati e sostenitori, ma mai venendo meno alle prerogative di base: «…pi fari picciuli…», per produrre denaro.

Ayala quale ciliegina sulla torta, disinnescò le trappole insite nella credibilità dei pentiti, ribaltando il concetto di fondo. Dimostrò come le loro dichiarazioni fornivano il riscontro ad accertamenti già compiuti, e non il punto di partenza per le indagini. In questo modo venne zittito il coro dei molti che sostenevano come molti giudici si fossero lasciati guidare dal pentito di turno.

Vennero richiesti diciannove ergastoli, tra cui Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, e decine di condanne minori per un complessivo di diverse migliaia di anni di carcere, ma anche alcune assoluzioni. Erano le posizioni di imputati non ritenute penalmente convincenti, che evitarono l’impressione di giustizialismo e rafforzarono le richieste di condanna.

La comune concezione odierna del fenomeno mafioso, parte dal considerare tutto questo come uno scontato dato di partenza, ma quando nell’aprile del 1987 si affermarono in aula concetti simili, molto di quanto letto in questo paragrafo non lo era affatto. Il giudice aveva per mesi preparato con cura un complesso elenco di riferimenti agli atti del processo per ciascun imputato. Alla fine risultarono oltre un migliaio. Un metodo di lavoro mai sperimentato su così larga scala.

«Mi ero dovuto inventare tutto, con il risultato che l’invenzione si era guadagnata il brevetto», commentò in seguito Giuseppe Ayala.

 

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