La prima guerra di mafia.
21.05.2013 11:43
L'eccidio del 30 giugno 1963 segnò la fine di quella che è diventata nota come la «prima guerra di mafia». Il grido di vite che seguì disperse gli uomini d'onore non sono in tutta Italia, ma in tutto il mondo. Facciamo un passo indietro!
Improvvisamente, tra la fine del 1962 e l’inizio del 1963 le esplosioni, gli inseguimenti in macchina e le sparatorie diventarono a Palermo eventi di ordinaria amministrazione.
La prima guerra di mafia ha tutto l’aspetto della tipica vicenda in cui un’uccisione ne chiama un’altra, all’infinito. Ma i continui conflitti intestini della mafia non sono mai cosi prevedibili, perché nel mondo di Cosa Nostra l’inganno e la politica sono altrettanto importanti delle pistole e delle bombe.
In realtà, tra tutte le guerre di mafia la prima potrebbe essere stata quella combattuta con maggiore astuzia. Se fossimo davanti a un cliché “chicagoano” potremmo sbrigarcela in fretta. Si è spesso pensato che la natura dei principali contendenti bastasse a far concludere che la prima guerra di mafia fu lotta tra la “vecchia” mafia e la “nuova” mafia, tra venerabili boss terrieri e temerari giovani malavitosi diventati precocemente ricchi grazie alla droga e al cemento.
Da una parte, s’insisteva, c’era Salvatore Greco detto “Cicchiteddu”, il figlio del boss di Ciaculli assassinato nel 1946 da Piddu il Tenente. In altre parole, “Cicchiteddu” era il rampollo di una delle più riverite dinastie di Cosa Nostra. Schierato contro quest’aristocratico della mafia c’era Angelo La Barbera, il capo di Palermo Centro. Angelo e suo fratello Salvatore erano usciti dal nulla: il padre si guadagnava da vivere vendendo legna da ardere. In origine semplici delinquenti di strada, i fratelli La Barbera avevano fatto carriera all’interno dell’organizzazione, svolgendo un ruolo di prima grandezza nel sacco di Palermo.
Il territorio di Angelo La Barbera includeva buona parte della zona intorno a via Libertà in cui si concentrò la prima fase del sacco; ed egli aveva un buon rapporto di lavoro con Salvo Lima, il giovane Turco della Democrazia Cristiana. Tra gli alleati di “Cicchiteddu” greco c’era Luciano Liggio, il figlio di un umile famiglia contadina che aveva fatto carriera, finendo con l’assumere nei tardi anni Cinquanta il controllo della Famiglia di Corleone. La prima guerra di mafia fu scatenata da una truffa a proposito di una partita di eroina.
Nel febbraio 1962 i fratelli La Barbera e i Greco erano tutti membri di un consorzio che finanziò una spedizione di eroina dall’Egitto. La merce arrivò regolarmente sulla costa meridionale della Sicilia. Fu inviato un uomo d’onore, Calcedonio Di Pisa, a controllare che venisse inoltrata senza intoppi verso New York sul transatlantico Saturnia. Ma i mafiosi di Brooklyn che ricevettero la droga scoprirono che i pacchetti non contenevano la quantità pattuita. Il cameriere del saturnia cui Di Pisa aveva consegnato l’eroina fu torturato, ma non rivelò nulla. Si cominciò a sospettare dello stesso Di Pisa. In una riunione della Commissione convocata per decidere sul caso, Di Pisa fu assolto dall’accusa di aver sottratto una parte dell’eroina. Ma questa decisione non soddisfece i La Barbera, che non celarono il loro malcontento.
Il 26 dicembre 1962 Di Pisa fu ammazzato in piazza Principe di Camporeale, sul margine occidentale di Palermo. Aveva appena parcheggiato la sua automobile, ed era diretto verso una tabaccheria, quando due uomini gli spararono con una trentotto e una doppietta a canne mozze. Poco dopo furono attaccati altri membri della famiglia di Di Pisa. Quindi, nel gennaio 1963, cominciò la rappresaglia: Salvatore La Barbera rimase vittima della lupara bianca (fu trovata soltanto la sua Giulietta, incendiata). Spari anche il fratello Angelo, il capo, ma ricomparve a Roma per tenere una conferenza stampa; era un modo per far sapere agli amici che era ancora vivo, e contemporaneamente per fare di se stesso un bersaglio troppo pubblico perché i nemici potessero eliminarlo facilmente.
Dopo la morte del fratello, Angelo La Barbera era deciso a continuare la guerra. Il 13 febbraio una Giulietta imbottita di esplosivo distrusse la casa di “Cicchiteddu” Greco a Ciaculli. Sebbene fosse rimasto incolume, la risposta di “Cicchiteddu” fu altrettanto spettacolare. Alle 10.25 del 19 aprile una fiat seicento color crema si fermò davanti alla pescheria Impero, in via Empedocle Restivo. A quell’ora la strada era affollata di massaie, e qualcuna ricordò che le era parso strano che la capote della vettura fosse alzata, visto che piovigginava. Prima che avessero il tempo di pensarci su, due killer si levarono in piedi sui sedili e innaffiarono di mitraglia la bottega. Restarono uccisi due uomini, tra cui il pescivendolo, ritenuto un killer di La Barbera. Ci furono anche due feriti, uno dei quali un passante. Chiunque fosse nel negozio a quell’ora-probabilmente c’era Angelo La Barbera-chiaramente si aspettava guai, perché da dentro risposero al fuoco con una rivoltella e una doppietta. Più tardi, mentre nella pescheria fracassata la polizia metteva le mani su un arsenale di pistole e fucili, attivisti comunisti provvisti di megafoni fecero il giro della zona in macchina per reclamare provvedimenti.
La vittima successiva fu un alleato dei Greco. Il boss di Cinisi fu ucciso al cancello di ferro della sua piantagione di limoni da una bomba collocata, non occorre dirlo, in una Giulietta. Questa sontuosa berlina a quattro porte per famiglie”svelta, pratica, comoda, sicura e conveniente”, recitava la pubblicità- era uno dei simboli del miracolo economico italiano. Ma con le auto bombe che esplodevano nelle strade di Palermo, la Giulietta si trovò presto a simboleggiare qualcosa di più pericoloso e, a quel che sembrava, atavico. In seguito gli inquirenti supposero che l’attentato di Cinisi fosse l’ultimo disperato tentativo compiuto da Angelo La Barbera per dimostrare che era ancora in grado di colpire i suoi nemici. Se si trattava di questo, la cosa funzionò. La Barbera fu definitivamente messo in condizioni di non nuocere nelle prime ore del 25 maggio 1963. Ciò che colpi l’opinione pubblica italiana in questa azione non fu la sua ferocia- due automobili si accostarono a La Barbera e i loro occupanti l’innaffiarono di pallottole- e neppure il fatto straordinario che la Barbera riuscisse a cavarsela malgrado i colpi l’avessero raggiunto all’occhio sinistro, al collo, al petto, alla schiena, a una gamba e all’inguine. Non solo, ma i medici gli trovarono piantata nel cranio un’altra pallottola, residuo di una precedente aggressione (dopo tutto, c’era qualche motivo dietro la sua ipocondria integrale). Ciò che sorprese fu il luogo dell’azione. La sparatoria avvenne in viale regina Giovanna, una strada residenziale di Milano- la prospera città settentrionale in cui si fabbricano le gillette. I titoli del “Corriere della Sera” espressero la sorpresa della città, e rivelarono il suo atteggiamento nei confronti di un comportamento tipicamente siciliano: «La guerra tra le cosche mafiose si è trasferita a Milano» e «Il siciliano crivellato da sei pallottole ha risposto alla polizia: non so niente». Quando il raggio d’azione di Cosa Nostra si allargò fuori dei confini della Sicilia, la questione mafia fu inscritta nell’agenda politica nazionale.
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