«La mattanza»

21.05.2013 12:11

 


Il 23 aprile del 1981 nel giorno del suo 43esimo compleanno, Stefano Bontate viene assassinato dagli uomini di Riina mentre stava rientrando a casa in auto. I killer imbracciano un’arma fino ad allora sconosciuta sul teatro mafioso: l’Ak-47 kalashnikov. Salvatore Inzerillo si munirà di un’alfetta blindata, ma poco più di due settimane più tardi, l’11 di maggio, un commando lo aspetta sotto la casa di una delle sue amanti: sempre a colpi di ak-47 verrà freddato prima di raggiungere l’auto. Entrambe le sentenze di morte vennero eseguite con tale inaudita violenza da renderli praticamente irriconoscibili.

Anche nel passaggio dalla lupara al kalashnikov, si coglie il messaggio di quella sferzata violenta che i corleonesi infliggono alla loro strategia. Un mutamento epocale di natura culturale e militare. La fazione palermitana era stata nell’arco di pochi giorni decapitata dei suoi leader sul campo, visto che Badalamenti era in esilio forzato negli Stati Uniti e Buscetta latitante in Brasile. Nonostante questo terribile uno due, si attendeva da parte di un fronte popolato da uomini d’onore di rango avvezzi a sfide di ogni tipo, una reazione rabbiosa carica d’orgoglio, ma nulla di questo avvenne.


L’attacco corleonese era stato di una tale audacia militare da lasciare senza fiato, e i rivali rimasero storditi ed inerti, quasi paralizzati dal terrore. Un comportamento che rese ancora più semplice il compito di chi come Riina e Provenzano, aveva già programmato da tempo la sistematica alienazione del fronte nemico.

Nelle settimane e nei mesi che seguirono, oltre 200 uomini d’onore affiliati alle famiglie che ruotavano intorno a Bontate ed Inzerillo vennero massacrati. Un «Esercito fantasma», come lo definì il giudice Falcone, colpiva e spariva. Decine di killer giovani e spietati, reclutati in silenzio nell’area della provincia di Palermo, costituivano un esercito terribile e sconosciuto. Si pensi che ancora sul finire dell’anno successivo, nel solo 30 novembre del 1982, vennero uccisi in più punti del capoluogo e ad orari diversi, 12 uomini d’onore. Delitti commessi in pieno giorno, in presenza di molti testimoni, tra la gente.

La mattanza aveva assunto tali proporzioni da generare psicosi collettive. Molti affiliati venivano eliminati dai loro stessi collaboratori quale offerta per il passaggio al clan vincitore, nella speranza di essere risparmiati da questa macchina di morte inarrestabile. L’ordine di Riina era di raggiungere ed eliminare tutti i nemici anche oltre oceano, includendo nella lista Buscetta in Sud America e chiunque a lui collegato negli Stati Uniti.


I corleonesi estesero le sentenze di morte anche ai parenti e agli amici degli affiliati opposti, per sottrarre qualsiasi possibile aiuto o supporto logistico alle prede da cacciare. Il caso di Salvatore Contorno, fido soldato di Bontate è tra i più significativi. «Totuccio» riuscì a sfuggire ad un attentato rispondendo prontamente al fuoco del killer, ma nelle settimane seguenti vennero eliminati 35 suoi familiari. Scelse in seguito di collaborare con Falcone e la sua testimonianza non fu meno importante di quella di Buscetta. Un fiasco che costò molto caro alla mafia corleonese: le confessioni di Contorno consentirono l’arresto di un ampio numero di affiliati.


La mattanza si prolungò per molto tempo, tanto da suscitare la diffusa percezione di un fenomeno continuo, mai arrestatosi del tutto. Eliminati i nemici, i loro affiliati, i loro parenti e amici e persino i neutrali anche solo sospettati di un coinvolgimento, Riina iniziò a colpire pure chi tra i suoi manifestava atteggiamenti troppo indipendenti. Un esempio emblematico ci viene fornito da ciò che accadde a Pino Greco detto «scarpuzzedda» (parente del «Papa» Michele Greco ), un killer corleonese di primo piano che partecipò alle illustri uccisioni di Bontate e Inzerillo, nonché a quella del figlio adolescente di questo ultimo. Egli nell’autunno del 1985 venne ucciso per ordine di «U curtu» Riina, perché sospettato di prendersi libertà come mutilare senza ordini i corpi di alcune vittime.
Anche nell’applicazione di forme e metodi di crudeltà, Riina esigeva l’esclusività del marchio.


Al termine di un percorso iniziato 30 anni prima, i corleonesi avevano raggiunto l’obbiettivo di guidare Cosa Nostra, arrivando attraverso questo ultimo vero e proprio colpo di stato con eliminazioni a ciclo continuo, ad esercitare una feroce dittatura. Se da un lato tutto era avvenuto nel pieno rispetto dei valori della tradizione di Cosa Nostra, dall’altro non si era privi di una serie di sfumature che stonavano pesantemente con l’aurea di onorata società. Risultava innegabile a tutti, quanto una simile carneficina avesse esposto alla luce del sole una essenza fino ad all’ora coperta da un spesso velo di ipocrisia. Ognuno aveva ora gli strumenti per capire la vera radice del male che la mafia celava, rendendo molto più complicato il compito a chi tentava da sempre di esaltarne l’immagine di organizzazione onorevole e buona, ma non solo. La mafia attirò su di se la massima attenzione dell’opinione pubblica, una esposizione mediatica in totale antitesi alla sua secolare peculiarità: operare all’ombra di quel mix composto da omertosa complicità e comune indifferenza. A distanza di anni, si può affermare che la strategia corleonese illustrata negli eventi della seconda guerra di mafia, come nell’attacco sferrato alle istituzioni di cui parleremo nella prossima puntata, spezzò in parte questi equilibri. Costrinse molti a far cadere giù la propria maschera, aprì delle brecce nel muro del disinteresse collettivo. In quei varchi s’insinuarono gli esponenti di una “minoranza virtuosa” che andremo a conoscere.

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