La fine di un'epoca

21.05.2013 12:58

 

 

Dalle istituzioni si attendevano risposte coerenti per dare un seguito ai risultati acquisiti. Il primo appuntamento, forse tra i più importanti, costituì la più amara delle delusioni, viatico ad una lunga serie di misfatti che lo Stato italiano si apprestava a commettere.

Nino Caponnetto riteneva la sua missione a Palermo compiuta e si preparava a fare ritorno a Firenze. Al Consiglio Superiore della Magistratura era affidato la nomina del suo successore. Al termine di laboriose consultazioni in lizza rimasero due nomi: Giovanni Falcone, in veste di erede naturale di quel ruolo che fu di Chinnici, quale assoluto protagonista della lotta a Cosa Nostra, e Antonino Meli, il più anziano tra i pretendenti, senza nessuna esperienza passata in qualità di giudice istruttore, e con un solo processo per mafia all’attivo in carriera.

È interessante sapere, come Meli avesse inoltrato da tempo la domanda per investire il ruolo vacante di Presidente del Tribunale di Palermo, richiesta avvalorata anche in questo caso dalla lunga militanza giuridica. Un consigliere del CSM e altri magistrati però, si adoperarono celermente per convincerlo a ritirare quella domanda e puntare all’incarico vacante di capo dell’ufficio istruttorio di Palermo. Quando si dice il caso.

I risultati di Falcone erano da tutti riconosciuti ma vi fu chi si aggrappò al suo supposto egocentrismo, ad una presunta arroganza professionale, all’ipotizzato scarso rispetto per le gerarchie e le anzianità, per evocare spettri alla sua nomina.

A favore di Meli si decantarono le lodi di uomo esperto, rispettoso delle autorità, di professionista rimasto nell’ombra a svolgere con dedizione il suo compito ad attendere il suo momento e persino, al senso del dovere e del sacrificio manifestato sin dal settembre 1943, quando per due anni fu prigioniero nei campi di concentramento nazisti in Polonia e Germania. Pur riconoscendo il valore dell’uomo, non si può affermare che tutte queste prerogative rientrassero in cima alla lista del novero dei requisiti, per l’uomo che doveva far tremare le vene ai polsi ai vertici di Cosa Nostra.

Amara ironia a parte, si spenderanno milioni di inutili e ipocrite parole per suffragare la scelta di uno a spese dell’altro. Nella sostanza a supporto di Falcone vi erano la certificata competenza, il merito, le capacità; a puntello di Meli la sola anzianità di servizio. Ma si può andare oltre. L’elezione di Falcone avrebbe espresso la precisa volontà giudiziaria e politica di proseguire una strada già avviata e costellata di recenti e storici risultati.

Ebbene, il CSM si pronunciò diversamente e il 19 gennaio del 1988, Antonino Meli venne preferito a Giovanni Falcone grazie al voto di 14 consiglieri a favore contro 10. Ad acuire l’amarezza di chi sperava nell’apertura di un nuovo ciclo, basti pensare che con il vincitore si schierò anche buona parte di Magistratura Democratica, quella corrente in seno all’universo giudiziario italiano, che all’inizio degli anni ’70 aveva generato un impulso innovativo contro lo stagnante conservatorismo della giustizia, così prezioso a Cosa Nostra.

Nei panni di uno dei più attivi sostenitori di Falcone, vi era un magistrato di nome Giancarlo Caselli, un uomo che alcuni anni più tardi, ribadirà tale fedeltà divenendo determinante nella cattura degli artefici della morte del suo maestro.

L’elezione di Meli poteva risultare un elemento secondario se questi avesse operato proseguendo nel segno di Caponnetto e della linea impostata con il pool. La sua nomina invece fu un messaggio scritto a chiare lettere: quella epoca era terminata. Il folto popolo dei giudici conservatori che tanto avevano nicchiato dinanzi ai metodi così poco tradizionali espressi dal pool antimafia, avevano fatto valere il loro peso. Tornava l’era dei magistrati burocrati. La lotta alla mafia non era più ritenuta una emergenza quotidiana.

Il giudice Ayala, non usa mezzi termini al riguardo nel definire che, «Il maxi processo era stato una specie di incidente di percorso che aveva comportato un rivoluzionamento intollerabile della prassi giudiziaria e, perciò, da correggere al più presto». Se in questo frangente Ayala non lega il ragionamento a cause dalla natura criminosa come possibili collusioni, ma più ad una sorta di genetico virus che affigge la nostra giustizia, da sempre malata di «gerontocrazia», diverso è il suo avviso se si allarga il tema dell’analisi al perché lo Stato non sia riuscito nei decenni a sconfiggere la mafia, a differenza di quanto riuscì ad esempio a fare con il terrorismo di sinistra.

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