La fine di Salvo Lima
21.05.2013 13:16
Sono le 9:30 del mattino del 12 marzo 1992 quando l’onorevole Salvo Lima euro parlamentare DC, esce dalla propria villa in via delle Palme a Mondello, in provincia di Palermo. Ad attenderlo in auto vi sono il prof. Alfredo Li Vecchi e il dott. Leonardo Liggio, entrambi esponenti della DC palermitana. I tre politici sono diretti ad uno dei maggiori alberghi della zona: in programma vi è una importante riunione dei vertici locali del partito intenti ad organizzare i preparativi della imminente visita di Giulio Andreotti, impegnato nella campagna elettorale per le politiche del 4 e 5 aprile.
Percorso un breve tratto di strada l’auto è affiancata da una motocicletta con due persone a bordo che sparano al suo indirizzo diversi colpi di arma da fuoco. L’automobile si arresta di lato e l’onorevole democristiano che nel frattempo ha ben compreso ciò che sta accadendo, quando si accorge della moto che una volta invertita la marcia sta per ripiombare su di loro, esce in preda al panico dalla vettura gridando «Stanno ritornando…!».
Nel disperato intento di guadagnarsi una via di fuga, Salvo Lima ingaggia una inutile corsa a piedi, ma uno dei killer sceso dalla moto per inseguirlo, una volta raggiunto lo fredderà con alcuni colpi di pistola, per finirlo con un colpo di grazia alla testa. Li Vecchi e Liggio nel frattempo erano anch’essi scesi dall’auto e dopo una breve corsa si erano riparati dietro un cassonetto della spazzatura ad assistere sgomenti e terrorizzati all’esecuzione. Grazie al contributo di diversi testimoni la dinamica dell’agguato appare subito chiara agli inquirenti unitamente alla sua matrice mafiosa. La notizia irrompe nel panorama politico nazionale suscitando clamore e timore.
La mafia aveva giustiziato Salvo Lima. Ma perché proprio lui? Voleva essere un attacco alla DC siciliana o nazionale? E se così fosse, per quale motivo eliminare un politico in quel momento al Parlamento Europeo e non un suo collega a Roma? Le risposte risiedono nella comprensione del ruolo che l’On. Lima ha rivestito per oltre i quarant’anni della sua militanza politica nella DC siciliana e nazionale.
Di mafiosi Lima ne aveva conosciuti e frequentati molti. Uomini d’onore altolocati, potenti e di prestigio, spesso intrattenendo con loro confidenziali e duraturi rapporti che oltrepassavano la sfera affaristica e forse mafioso, lo era anch’egli 15. Le numerose testimonianze dei collaboratori di giustizia degli anni seguenti ricostruirono con esattezza la preziosa figura di Lima, quale autentico e principale referente politico di Cosa Nostra per la DC siciliana.
Egli a soli 23 anni nel 1951, era entrato a far parte della giunta comunale di Palermo nelle liste democristiane. La sua ascesa prosegue con un mandato da vicesindaco dal 1956 al ’58, e due da primo cittadino dal ’59 al ‘63 e dal 1965 al 1968. Sono gli anni del boom edilizio italiano che in Sicilia si chiama speculazione selvaggia, o più precisamente “Sacco di Palermo”. L’epoca in cui la giunta cittadina rilasciava migliaia di concessioni edili, molte a prestanome, alcuni dei quali si scopriranno già defunti nelle date di assegnazione. Una sistematica ed incontrollata spartizione degli appalti pubblici tra le aziende controllate da Cosa Nostra.
Lungamente legato al «fanfaniano» Giovanni Gioia, grande amico di Vito Ciancimino il discusso sindaco di Palermo legato a Totò Riina e Bernardo Provenzano, e successivamente braccio destro di Giulio Andreotti, Salvo Lima nel corso della sua carriera ha consentito alla mafia guadagni stellari in cambio di un costante e cospicuo flusso di voti verso i capi corrente a lui legato.
Personaggi storici del panorama politico del dopoguerra come Amintore Fanfani e Giulio Andreotti, hanno potuto fondare su quei voti una luminosa e longeva carriera politica in grado di assicurargli assidue e ripetute cariche alla guida del Governo. Lima fu ripagato con tanto potere, e numerosi incarichi di prestigio a livello nazionale ed europeo. La sua figura di intoccabile nonostante le imbarazzanti amicizie, sarà motivo di dissensi all’interno della stessa DC, ma alla fine persino Aldo Moro dovrà arrendersi dinanzi alla impossibilità di una sua rimozione.
La mafia però ha una memoria condizionata dalle sole esigenze di prestazioni e servizi, e l’aver così a lungo militato in ambienti saturi di tali frequentazioni, non è risultato un alibi ma una aggravante nell’istante in cui Totò Riina ha ritenuto altamente insoddisfacente il lavoro da lui svolto nell’ultimo periodo. Cosa Nostra intende far pagare alla corrente di Giulio Andreotti, una sorta di tradimento per la mancanza di quelle coperture che dovevano condurre ad una diversa conclusione la sentenza in Cassazione del Maxi Processo, e magari impedire a Giovanni Falcone di creare tanti problemi.
Riina si sente come un vecchio compagno prima usato e poi scaricato dagli amici politici, e prima di occuparsi dei nemici, avvia il suo regolamento di conti con un chiaro messaggio verso chi si era dimenticato di lui. Gli esecutori materiali dell’omicidio del fedelissimo andreottiano furono il killer poi divenuto un pentito Francesco Onorato, uomo d’onore della famiglia di Partanna-Mondello, che quel 12 marzo cavalcava la motocicletta insieme a Giovan Battista Ferrante.
All’ombra del «Palazzo» che sta per crollare, Provenzano tenta di sparire Negli ambienti della magistratura l’assassinio di Lima fu registrato con estrema preoccupazione. Egli rappresentava una delle figure simbolo dell’istituzione mafioso politica, e la sua cruenta e spettacolare eliminazione equivaleva ad un terremoto dalle conseguenze imprevedibili. Stavano saltando degli schemi consolidati da decenni, ed in questi casi maturava la percezione del tutto può succedere.
Giovanni Falcone commentò l’accaduto con «E adesso viene giù tutto». Sempre il magistrato, in un editoriale sul quotidiano «La Stampa» di quei giorni afferma: «Il rapporto si è invertito: ora è la mafia che vuole comandare. E se la Politica non obbedisce, la mafia si apre la strada da sola».
Ma come ci viene suggerito da Abbate e Gomez, la politica a cui fa riferimento il giudice, è oramai un surrogato di potenti che abitano in un palazzo pericolante. Il 17 febbraio di quel anno l’inchiesta «Mani Pulite» ha avviato il suo corso, sotto la direzione del pool di magistrati della procura di Milano guidati da Francesco Saverio Borrelli.
Nel capoluogo milanese viene arrestato Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio. Il fermo darà il là ad un effetto domino che coinvolgerà nell’arco di poche settimane tutti i partiti politici e rispettivi leader. Le imputazioni ricorrenti saranno finanziamento illecito ai partiti, concussione e corruzione.
Quel Bettino Craxi che gli uomini d’onore cercano ancora di agganciare, viene definito dagli autori come «Un cavallo che si sta schiantando ancora prima di correre». Gli arresti ordinati dalla procura di Milano, stringeranno le manette ai polsi di quasi tutti i fidi scudieri del leader socialista. Con Martelli che si è bruciato con Falcone e Andreotti oramai inaffidabile, Cosa Nostra ritiene di non avere scelta, la strategia deve andare avanti, non si può tornare indietro.
Provenzano è però dubbioso che questa sia la strada migliore. Aldilà delle rassicurazioni fornite dal sondaggio interno, egli è certo che lo Stato reagirà in qualche modo, e teme soprattutto conseguenze che minino la libertà individuale. La sua latitanza iniziata ben nel 1963, non gli ha impedito di muoversi ed agire. Egli è anche riuscito a crescere una famiglia con la compagna Saveria Palazzolo, di allevare due figli, ma ora le cose potrebbero cambiare.
Il fitto tessuto di amici, soci in affari e familiari che lo hanno sin qui protetto, rischia di subire un attacco massiccio. L’ideale sarebbe poter scomparire. Farsi credere morto la soluzione migliore. Ci proverà. A dimostrarlo fu quanto accadde nei primi giorni di aprile del 1992, circa tre settimane dopo l’assassinio di Lima. Saveria Palazzolo ed i figli tornano a Corleone ed annunciati da una telefonata di un avvocato di fiducia, si recano nella caserma dei carabinieri per un colloquio. Su di loro non vi sono pendenze giudiziarie: essere la convivente di un latitante non è di per sé reato.
La chiacchierata lascerà nei militari la netta sensazione che Provenzano sia defunto. Se si trattò di percezione spontanea o «aiutata» da qualche altro elemento figlio della rete di agganci territoriali di cui godeva il boss, non fu mai chiarito. Di certo quando la polizia la convocò per delucidazioni, Saveria Palazzolo chiese curiosamente di essere accompagnata in questura da una gazzella dei carabinieri. Un militare fu silenzioso testimone dell’incontro nell’ambito di una procedura certamente anomala, ma la cronaca di quei giorni stava per prendere il tragico sopravvento, e quello strano episodio venne sepolto dagli eventi.
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