La disputa tra don Calò e Michele Pantaleone.
19.05.2013 12:38
Con il braccio politico della mafia schierato nella sua stragrande maggioranza per la causa separatista, il suo braccio militare si trovò a far fronte a una nuova minaccia proveniente dalla sinistra. Nell'autunno del 1944 il ministro dell'Agricoltura (comunista) del nuovo governo di coalizione italiano fece approvare alcune riforme radicali destinate ad aprire un nuovo, cruento capitolo nella storia della rinascita della mafia. Le riforme puntavano niente meno che a una soluzione definitiva della questione agraria, che da oltre un secolo manteneva in uno stato di perenne agitazione le campagne meridionali. I provvedimenti mostravano l'influenza di Gerardino Verro e dei Fasci: i contadini avrebbero ottenuto una quota più grande dei prodotti della terra che lavoravano come affittuari, e venivano autorizzati a costruire cooperative e a rilevare la terra lasciata improduttiva. Il ministro dell'Agricoltura tentò addirittura di eliminare la figura dell'intermediario tra proprietari e contadini – un attacco diretto contro i gabellotti.
Il debole stato italiano non era in grado di far applicare celermente queste nuove regole, ma i contadini le considerarono un segnale che il potere era finalmente disposto ad appoggiare la loro fame di terra e di giustizia. I proprietari ebbero la sensazione che le loro paure riguardo al pericolo rosso fossero sul punto di materializzarsi. Il risultato fu che i possidenti, come avevano già fatto dopo la prima guerra mondiale, si rivolsero ai mafiosi perché affrontassero i contadini con la forza.
Di nuovo, fu un famoso episodio (questo però vero) svoltosi nella Villalba di don Calò a inaugurare la nuova fase nel processo della rinascita della mafia. Come per molti altri mafiosi, nel 1944 la prima preoccupazione di don Calogero Vizzini fu la terra – nel suo caso il feudo Micciché intorno a Villalba. Per conquistare il controllo, doveva togliere di mezzo un nemico particolarmente molesto: Michele Pantaleone (l'uomo che in seguito avrebbe messo per iscritto la storia dell'aereo da cacci americano e del foulard giallo). Pantaleone apparteneva a una famiglia di professionisti del posto, le cui tradizioni repubblicane la collocavano nella fazione opposta a quella dei cattolici Vizzini. Don Calò aveva speso molti sforzi nel tentativo di convincere Michele Pantaleone a sposare la nipote Raimonda, ma questa storia d'amore dinastico-paesana non fiorì; e cosa ancora più grave Pantaleone diventò socialista. Il giovane ribelle utilizzò la stampa di sinistra, allora in rapida crescita, per attirare l'attenzione sul feudo Micciché, e cercò di far valere la sua influenza sui gruppi di sinistra di Villalba. Don Calò reagì facendo tagliare alcune piante di ulivo nella terra di famiglia dei Pantaleone e ci fu addirittura un attentato fallito alla vita di Michele.
È probabile che il tentativo fosse soltanto un avvertimento, perché contemporaneamente il capomafia mobilitò i suoi contatti. Fedele al ruolo di pacificatore, aveva offerto un accordo al Partito comunista di Caltanisetta: l'avrebbe aiutato a creare una sezione a Villalba, purché il segretario fosse uno dei suoi campieri. Saggiamente, i comunisti rifiutarono. Con l'equanimità che si addiceva alla sua vocazione, don Calò continuò a far leva sugli antichi legami con i proprietari terrieri conservatori.
Il 2 settembre 1944, su invito di don Calò, Andre Finocchiaro Aprile – l'«amico» di Winnie, Delano e la mafia – pronunciò a Villalba uno dei suoi tipici discorsi incendiari, promettendo la ricchezza per tutti se la Sicilia diventava indipendente. In paese la temperatura saliva, e Michele Pantaleone provocò un'ulteriore impennata invitando il leader regionale comunista Giacomo Li Causi a tenere un comizio a Villalba. Il Partito comunista di Caltanisetta, forse preoccupato che Pantaleone potesse mettere in pericolo il suo capo, contattò Vizzini. Il vecchio boss dette ampie assicurazioni; dopo tutto, disse, stava offrendo a quegli uomini la sua personale ospitalità, purché si astenessero dal toccare le questioni locali, non ci sarebbero stati guai. Il 16 settembre arrivò a Villalba un camion con Li Causi e i suoi compagni.
Don Calò esordì chiedendo cortesemente ai nuovi arrivati «se poteva avere l'onore di offrire un caffè». Avvertendo la minaccia nella formula di benvenuto, i militanti di sinistra seguirono il vecchio, che attraversò la piazza ciabattando ed entrò in un bar. Durante il percorso notarono che sui manifesti affissi per pubblicizzare il loro comizio erano state dipinte delle grandi croci nere. Don Calò cercò di ragionare con i visitatori mentre bevevano il suo caffè e fumavano le sue sigarette. Villalba, disse, è come un monastero; non si doveva turbare la sua tranquillità. Se proprio insistevano a voler parlare, che lo facessero con giudizio. Quando don Calò ebbe finito il suo discorsetto, gli attivisti ritornarono in piazza, pronti allo scontro.
Con l'eccezione di qualche comunista e socialista del posto, il grosso degli abitanti di Villalba avevano ritenuto prudente ascoltare il comizio da dietro le imposte sbarrate. Quando i militanti uscirono dal bar, si trovarono davanti a una masnada di uomini di don Calò che con le braccia conserte e un sorriso beffardo sulle labbra, guardavano dritto in faccia. Tra l'oro c'era il nipote di don Calò, recentemente successo allo zio nella carica di sindaco. Quindi lo stesso don Calò uscì dal bar e si unì al gruppo.
Pantaleone salì su un tavolo e presentò il principale oratore, il leader comunista Girolamo Li Causi non era uomo da farsi intimidire. Siciliano, era tornato nell'isola soltanto poche settimane prima dopo un'assenza durata vent'anni, in gran parte trascorsi nelle carceri di Mussolini come detenuto politico, e poi a Milano come dirigente della Resistenza antinazista. Era un oratore pacato e tuttavia carismatico; mescolando il dialetto all'italiano, parlò dei maltrattamenti subita da operai e contadini ad opera di industriali e dei latifondisti. I militanti che l'accompagnavano riferirono in seguito di aver udito voci di assenso dietro le imposte chiuse: «Giustu dici. Lu vangelu de le missa, dici».
Don Calò si agitò, imperterrito Li Causi cominciò a parlare del modo in cui i contadini di Villalba venivano ingannati da «un potente gabellotto» - il riferimento a don Calò era abbastanza trasparente: «Non è vero, è falso!», sbraitò il capomafia. Subito la gente cominciò ad abbandonare la piazza, un vecchio chiese a don Calò di lasciare che l'oratore venisse ascoltato, dopo tutto disse, quello era un tempo di libertà politica. Fu bastonato e finì steso per terra e intanto furono sparati i primi colpi; seguì un pandemonio.
Mentre le pallottole gli fischiavano accanto, Li Causi dette prova di uno straordinario coraggio: rimase in piedi sulla tribuna e cercò di riportare la calma, dichiarandosi disposto a discutere liberamente con chiunque non fosse d'accordo con lui. Il nipote di don Calò lanciò una bomba a mano, quando esplose, Li Causi cadde ferito ad una gamba. Pantaleone assunse il controllo della situazione, trascinando il capo comunista al sicuro e sparando in aria per colpire la ritirata. Nel muro dietro il luogo in cui Li Causi aveva parlato furono trovati oltre una dozzina di fiori di pallottole. I feriti furono quattordici.
Don Calò ordinò ai suoi uomini di calmarsi, e si offrì di aiutare a riparare il camion dei militanti di sinistra, danneggiato da una bomba a mano. Qualche giorno dopo inviò un emissario a presentare le sue scuse a Li Causi, che giaceva in un letto d'ospedale. Erano gesti privi di senso; la sparatoria di Villalba aveva già sortito il suo effetto intimidatorio. Sei mesi dopo la base di potere locale di don Calò fu rafforzata dalla sua nomina ad amministratore del feudo Micciché1.
L'incidente di Villalba finì sui giornali in tutta l'Italia liberata. Fu esso, più di qualunque altro crimine da lui commesso, a fare di don Calogero Vizzini un personaggio famoso. Ma non aveva motivo di preoccuparsi più che tanto. Anzi, il mondo in cui sfuggì alle conseguenze penali delle sue azioni non fece che rafforzare la sua reputazione. Tirando i fili giusti, riuscì a ottenere lunghi periodi di libertà condizionata mentre il caso avanzava con un passo da lumaca. Bisognò attendere il novembre 1949 perché don Calò e il nipote fossero giudicati colpevoli del ferimento di Li Causi, e il vecchio boss fosse condannato a cinque anni di prigione. Don Calò si limitò a darsi alla macchia, finché, in pendenza del processo d'appello, gli fu di nuovo concessa la libertà condizionata. Nel 1954 la sentenza fu confermata, ma don Calò evitò il carcere grazie a un atto di clemenza. Il giudice riconobbe che «era segnalato come capo della mafia», ma decise di esentarlo dallo sconta la pena in prigione della sua età e del fatto che non aveva mai subito condanne.
Gli eventi di Villalba inaugurarono una lunga stagione di aggressioni mafiose contro attivisti politici, sindacalisti e contadini comuni., durata fino ai primi anni Cinquanta. Le vittime che non ebbero la fortuna di Li Causi e di Pantaleone si contarono a dozzine, e tutti gli omicidi ebbero il consueto esito giudiziario: il rilascio dei sospetti assasini per mancanza di prove. In un certo numero di cittadine e paesi, il movimento contadino fu costretto a sottomettersi con l'uso del terrore.
1 Pantaleone, Mafia e politica, p. 83.
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