La delegittimazione
21.05.2013 12:54
Questo il clima che avvolgeva la città di Palermo quando nell’agosto del 1985, Giovanni e Paolo, unitamente alle loro famiglie, furono costretti ad una «reclusione forzata» all’isola dell’Asinara, per consentire allo Stato di garantirgli una adeguata protezione nella fase di preparazione del maxi processo.
La massiccia documentazione venne depositata l’8 novembre e da lì a qualche giorno tutti rientrarono nel capoluogo siculo. Quella che il giudice Ayala definì come «La Treccani», era un’ordinanza di rinvio a giudizio di circa ottomila pagine, che saliranno ad un milione con quelle del processo. Gli imputati alla sbarra erano 474 e l’inizio del processo venne fissato per il 10 febbraio 1986.
Quei mesi registrarono un una incalzante campagna di delegittimazione concertata da stampa e media, a danno dei pentiti, dei magistrati coinvolti e del processo quale istituzione. Quei centri di potere collusi a Cosa Nostra, misero in atto una potente manovra tesa ad abbattere la credibilità di un impianto processuale che volevano si ultimasse con un «tutti a casa», perché l’intero teorema Buscetta ed il metodo Falcone, dovevano essere screditati per evitare future e recidive complicazioni. Il fronte politico colluso a Cosa Nostra aveva compattato i ranghi dopo un periodo di smarrimento, e i segnali giungevano da un largo coro che la stampa e i media non lesinavano a divulgare.
Commenti, dubbi, supposizioni, insinuazioni, mezze voci, alcune solo sussurrate, altre riportate per bocca di terzi, indussero anche molti esponenti onesti a cadere vittima di una sofisticata campagna di disinformazione. La posta in palio del resto era altissima, ed in ballo non vi era “solamente” la condanna o l’assoluzione per centinaia di criminali accusati di reati gravissimi, dall’omicidio al traffico internazionale di stupefacenti, tutti accorpati e amplificati dall’associazione mafiosa. Si trattava di promuovere o bocciare un intero e rivoluzionario metodo di lavoro nella lotta alla più potente organizzazione criminale del mondo, e ancora, di indurre al silenzio la complessa e socialmente trasversale schiera di potere che più o meno nell’ombra si era lanciata contro di esso e i suoi iniziatori.
Altre difficoltà incorsero nella nomina del presidente della Corte. I canditati più autorevoli si sottrassero per svariati ed intuibili motivi, tutti salvo il giudice Alfonso Giordano, un noto civilista con poca esperienza in ambito penale, ma che assolse in maniera impeccabile il suo compito: infaticabile, metodico, preciso.
Nessuna difficoltà incorse nella designazione a sorteggio della giuria popolare.
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