La «colpevole indifferenza»

21.05.2013 13:05

 

All’interno del palazzo di giustizia di Palermo l’atmosfera si è resa settimana dopo settimana sempre più irrespirabile. Antonino Meli non perde occasione per polemizzare con Falcone e gli altri magistrati rimasti dell’era del pool, manifestando un livore a volte inspiegabile.

Il CSM dal canto suo, usa ogni appiglio per mettere in mostra il suo volto più politicizzato, schierandosi con Meli e scagliando attacchi pretestuosi verso le medesime procedure che avevano segnato la stagione dei successi. Si delinea un fronte della stampa nazionale inoltre, puntualmente attento ad accompagnare il potere politico nel elogiare questi provvedimenti verso quei magistrati che vengono additati di «Maccartismo giudiziario».

La grave macchia di cui si erano sporcati questi uomini, consisteva nell’ostinarsi a concepire la professione di giudice come la sola via per combattere gli affari mafiosi con risolutezza e rapidità. Giungono le formali dimissioni dal gruppo di Peppino Di Lello e Giacomo Conte, aggregatosi al pool successivamente. Con un chiaro «Non sono un uomo per tutte le stagioni e la stagione è diventata un’altra e non mi piace», Di Lello motivò ad Ayala la sua decisione.

L’avventura per un intero gruppo di lavoro era per parola di Ayala «miseramente quanto irrimediabilmente finita». Lo Stato aveva deciso di arrestarsi nell’istante preciso in cui dopo oltre un secolo stava registrando i successi più importanti. E anche qui nel fornire una spiegazione, Giuseppe Ayala è categorico: «Perché la mafia, lo Stato, ce l’aveva dentro!».

La forza della mafia risiede anche nel saper cogliere al volo favorevoli condizioni ambientali. Una politica impegnata a non perdere i cospicui affari derivanti dall’assegnazione dei miliardi provenienti dagli appalti pubblici, o una magistratura ancorata ad un sistema che scandisce l’avanzamento in carriera anche solo grazie all’anzianità, sono elementi di per se non collegati, ma divengono fattori che con la loro azione convergente finiscono con il creare i presupposti allo sviluppo di Cosa Nostra. Se uomini come Falcone poi, sono ostacolati ed isolati, anche o solo per aver minacciato questi fenomeni culturali, il servigio fatto alla mafia è già di per sé incommensurabile.

Una sentenza della Corte di Cassazione giunse anni dopo nel 2004, la numero 826 del 19 ottobre, e affrontò questo tema recitando testualmente: «Non vi è alcun dubbio che Giovanni Falcone, certamente il più capace e famoso magistrato italiano, fu oggetto di torbidi giochi di potere, di strumentalizzazioni ad opera della partitocrazia, di meschini sentimenti di invidia e di gelosia (anche all’interno delle istituzioni) tendenti ad impedire che egli assumesse quei prestigiosi incarichi i quali dovevano essere a lui conferiti per essere egli il più meritevole, sia perché il superiore interesse generale imponeva che il crimine organizzato fosse contrastato da chi si era indiscutibilmente dimostrato il più bravo, il più preparato e che offriva le maggiori garanzie anche di assoluta indipendenza e coraggio nel contrastare, con efficienza ed in profondità l’associazione criminale».

La auto denunciata anche da Borsellino nei suoi primi quarant’anni, «colpevole indifferenza», propria dell’era pre-pool antimafia, si è evoluta nel corso di circa un decennio in una «assenza di superiore interesse generale». In mezzo una scia di sangue e trionfi, che oggi in tanti si affrettano a normalizzare, pronti ad azzerare i conti, desiderosi di lasciarsi alle spalle brutti momenti da ricordare. In troppi sono impegnati a curare interessi di parte o di fazione, patologia del resto insita da sempre nel patrimonio genetico della nostra politica nazionale. Tra questi non tutti sono i collusi. Alcuni sono semplici strumenti al servizio di Cosa Nostra, a volte senza nemmeno accorgersi di esserlo, manipolati a dovere da un sistema in grado di isolare le reali minacce e abbagliare i meno acuti.

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