In attesa del maxi processo

21.05.2013 12:40

 


Nei primi mesi del 1985, la macchina giudiziaria era all’opera nella fervente preparazione del maxi processo. Venne stilata una documentazione di oltre quattromila pagine, un colosso istruttorio che parte della stampa riteneva non gestibile da un unico processo. Si respirava già quasi un’atmosfera di attesa per l’esito di quel procedimento. Riina aveva vinto la seconda guerra di mafia. I vertici di Cosa Nostra si assestavano secondo l’ordine stabilito dal conflitto interno, riallineando anche i collegamenti con il potere politico ed economico. L’incombente maxi processo generava incertezza, in quanto le sue conseguenze sfuggivano a dinamiche consolidate. Cosa Nostra non era in grado di gestire o almeno di conoscere in anticipo come in altre occasioni, indiscrezioni sull’esito di un processo così vasto.

Lo Stato appariva mai come ora compatto e determinato, e la sua pressione su di un numero così ampio di esponenti di spicco, anche e soprattutto alla luce delle scelte di Buscetta e Contorno, apriva a scenari imprevedibili. Chi sarebbe finito in carcere rischiava una vera condanna, in condizioni di reale isolamento e senza la speranza di ricevere sconti di pena. Troppe domande senza risposta per chi era da sempre abituato a conoscere le mosse del nemico con puntuale e rassicurante anticipo. L’unica certezza era che il maxi processo non poteva essere evitato, e il suo esito avrebbe condizionato le strategie mafiose del futuro.

Venne costruita in pochi mesi a Palermo, una sede unicamente creata per ospitare il procedimento. Una vera aula bunker realizzata seguendo criteri di sicurezza fino ad allora mai utilizzati in ambito di sedi processuali. Quella sorta di tregua che Cosa Nostra aveva imposto ai suoi crimini verso lo Stato, era destinata ad infrangersi nell’estate del 1985.

Alcuni la definirono come un rabbioso ed estremo tentativo di influenzare l’istituzione del maxi processo. Secondo i più, fu una rappresaglia verso quegli uomini della prima linea, che condussero le operazioni sulla strada finalizzando le inchieste del pool. La sera del 28 luglio viene ucciso a Porticello, un piccolo centro marittimo vicino a Palermo, il commissario Beppe Montana, mentre stava passeggiando sul molo insieme alla fidanzata. Montana era responsabile della «squadra catturandi».

Grazie al suo appassionante contributo, aveva consentito l’arresto di un ampio numero di latitanti. Spesso utilizzava il suo motoscafo per sorvegliare le residenze marittime estive dei mafiosi, anche mentre si trovava fuori servizio. Solo tre giorni prima aveva interrotto una riunione al vertice di Cosa Nostra, proprio inseguendo le tracce di un pericoloso latitante, tale Tommaso Cannella, molto legato ai corleonesi. Forse fu quella impresa a spingere Riina a rompere la pausa delle armi.

In seguito alle tracce lasciate dai due killer in fuga, venne fermato un sospettato, tale Marino, un giovane calciatore figlio di una povera famiglia di pescatori. Il clima di tensione e paura accumulato tra gli agenti dopo anni segnati dai tanti morti tra le loro fila, degenerò in rabbia cieca. Convinti di avere tra le mani l’ennesimo omertoso fiancheggiatore, agli uomini addetti all’interrogatorio sfuggì di mano la situazione: Marino muore in circostanze misteriose mentre è sotto custodia. La questura finisce nel centro del mirino mediatico. Gli animi di molti palermitani s’incendia quando al grido di «poliziotti assassini», familiari ed amici del defunto, portarono in giro per diversi quartieri della città, la bara del proprio caro estinto. 


La reazione mafiosa non si fa attendere, ed il 6 di agosto nel pieno di un caldo pomeriggio estivo, il commissario Ninni Cassarà viene trucidato mentre sta percorrendo a piedi, il breve tragitto tra la propria auto e l’androne di casa. Un numeroso gruppo di fuoco di circa una dozzina di killer, inonda di proiettili il povero Cassarà e l’agente Roberto Antiochia, che si era offerto di guardare le spalle al proprio superiore in quel delicato momento. Cassarà era il diretto superiore di Montana. Con un rapido uno due, Cosa Nostra aveva decapitato la squadra mobile dei suoi uomini più esperti ed efficienti. Due punti di riferimento affidabili e disponibili per l’intero pool antimafia, protagonisti di quasi tutte le operazioni sul campo di quella trionfante stagione di successi sulla mafia. Obbiettivi simbolici e strategici inequivocabili. 
 Ai funerali di Cassarà molti agenti in preda ad una rabbiosa frustrazione, lanciarono insulti e sputi sui politici presenti. L’accusa mossa verso il potere era chiara: lo Stato era al fianco degli uomini che in prima linea combattevano da soli la mafia, solo in occasione dei loro funerali.

Un diffuso senso di isolamento si sparse contagioso.
La tensione è destinata a salire quando pochi giorni dopo, confidenti attendibili informano Caponnetto che dal carcere 
è partito l’ordine di eliminare Borsellino e Falcone. L’informazione è ritenuta altamente credibile e immediatamente si dispone che i due magistrati con le rispettive famiglie, vengano trasferiti all’Asinara per preparare il maxi processo in un luogo protetto. 
 Dopo aver sferrato il più massiccio ed importante attacco a Cosa Nostra della sua storia, lo Stato si ritrova costretto in questa lunga e rovente estate dell’85, a battere in ritirata per proteggere la vita dei suoi uomini simbolo.

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