Il «virus» della corruzione

21.05.2013 12:12

 

In Italia da tempo immemorabile, si vive con la diffusa percezione che le garanzie elementari di giustizia ed equità, virtù consolidate in altre più fortunate democrazie, presentino notevoli imperfezioni. I cittadini non sono tutti uguali dinanzi alla legge, come non beneficiano delle medesime opportunità di scalare i gradini sociali in ogni ambito, pur se in possesso di identiche qualità individuali. La meritocrazia è un valore offuscato da antiche lacune culturali, e in Italia nella vita, pesano più le conoscenze di amici o parenti influenti e potenti, che i meriti propri. Un fenomeno che ha reso tristemente noto il nostro paese anche all’estero, pur non essendo l’unico a soffrire degli stessi mali, e senza per questo sostenere che tutti gli italiani siano corrotti. Diciamo che più facilmente di altri, per usare una definizione dello scrittore americano John Dickie «tendono ad adattarsi per sopravvivere all’ambiente che li ospita».

Al cospetto di questo stato delle cose, si elevano ancora più in alto gli appartenenti ad una «minoranza virtuosa», che hanno scelto di vivere combattendo questo sistema. Una esigua schiera di uomini onesti, fervidi credenti nella giustizia, che nel corso degli anni ’80 finirà per trovarsi accerchiata dai tanti contagiati dal virus della corruzione. Si diffuse in forma estesa e radicata, quasi epidemica, l’abitudine di versare mazzette e tangenti ai partiti politici per ottenere qualsiasi diritto. Il PCI ed il fronte della lotta operaia attraversano un lento declino.

Il Partito Socialista è oramai una forza che da storica componente della sinistra riformista, si sta spostando al centro verso la DC, per ad essa allearsi nel governare il paese. Il PSI diventa così complice nel diffondere il malcostume di una corruzione dilagante, che si instaura ad ogni livello del tessuto economico e politico. Una miriade di figure, dal semplice dipendente pubblico come il bidello, ai consiglieri d’amministrazione di banche o enti, venivano scelti se in tasca potevano esibire l’appropriata tessera di partito, mutevole da regione a regione. Per ottenere appalti o licenze, aziende private o pubbliche, erano costrette ad elargire tangenti ai partiti locali, in osservanza ad un cartello di regole non scritte ma oramai comunemente condiviso.

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