Il rapporto Sangiorgi: il tenebroso sodalizio.

18.05.2013 11:06

 

Tra gli innumerevoli documenti conservati a Roma nell'Archivio Centrale dello Stato c'è un fascicolo riservato contenente un rapporto che è la somma di una serie di resoconti inviati al ministero dell'Interno tra il novembre 1898 e il gennaio 1900. Il rapporto fu redatto da Ermanno Sangiorgi, questore di Palermo, e presentato al Procuratore generale del capoluogo siciliano nel quadro della preparazione di un processo1.

Il rapporto si apre con il primo quadro completo della mafia siciliana che sia mai stato delineato. Qui l'informazione è esplicita, particolareggiata e sistematica. Troviamo la mappa dell'organizzazione delle otto cosche mafiose che dominano i sobborghi e i paesi satelliti situati a nord e a ovest di Palermo: piana dei Colli, l'Acuasanta, Falde, Malaspina, l'Uditore, Passo di Rigano, Perpignano, l'Olivuzza. Il rapporto fa i nomi dei capi e sottocapi di ciascuna cosca, e offre dettagli personali su un gran numero di affiliati. Complessivamente abbiamo i profili di 218 uomini d'onore: uomini che sono proprietari terrieri, o lavorano nei limoneti e gli fanno la guardia, o svolgono un ruolo di intermediari nel commercio degli agrumi. Il rapporto parla del rituale d'iniziazione e del codice di comportamento della mafia. Illustra i suoi metodi imprenditoriali, la maniera in cui infiltra e controlla le aziende ortofrutticole, falsifica banconote, commette rapine, terrorizza e assassina i testimoni. Spiega che la mafia ha centralizzato i fondi per il sostegno delle famiglie dei detenuti e il pagamento degli avvocati. Racconta come i capi delle cosche mafiose lavorano insieme per la gestione degli affari dell'associazione e del controllo del territorio.

Questo diagramma della mafia è abbastanza impressionante, perché corrisponde in misura larghissima a ciò che molti decenni più tardi Tommaso Buscetta rivelò al giudice Falcone. Non esiste una più avvincente illustrazione dell'antica incapacità dell'Italia di scorgere la verità riguardo alla mafia. Ma ancor più impressionante è la sensazione che questo document2o, all'apparenza noioso avrebbe potuto cambiare la storia.Avrebbe potuto danneggiare la mafia non meno di quanto l'abbia danneggiata il maxiprocesso di Falcone nel 1987. Se il rapporto avrebbe raggiunto il suo scopo, la mafia avrebbe subito una sconfitta devastante dopo pochi decenni dalla sua nascita.

Sangiorgi scrisse il suo rapporto con l'occhio attento ai particolari e non poca passione. Si batteva a testa bassa contro lo scetticismo e le complicità presenti nelle istituzioni, e sentiva di avere a portata di mano un procedimento giudiziario di portata storica. Redasse il rapporto in una fase in cui era difficile, ma nient'affatto impossibile far condannare dei mafiosi per singoli delitti, o anche portare d'avanti ai giudici cosche isolate. Bisognava convincere i testimoni a venire in aula a dire la verità; tenere in vita gli informatori ex mafiosi quanto bastava per fargli deporre; proteggere giudici e giurie dalle rappresaglie, e isolarli dai tentativi di corruzione. Sangiorgi faceva bravamente fronte a tutti questi problemi, ma sapeva che la vera sfida era riuscire a far condannare la mafia in quanto tale, ponendo a fondamento del processo i racket della protezione e i contatti politici che stavano alla base del suo metodo. Per questo motivo puntava a utilizzare uno specifico strumento giuridico: una legge che vietava le associazioni criminali. Sebbene questa legge non prevedesse pene particolarmente pesanti, una sentenza di condanna basata su di essa avrebbe avuto un profondo significato politico. Avrebbe infatti confermato la teoria, apparentemente stravagante, secondo la quale una società criminale segreta e soffisticatissima aveva esteso la sua influenza a tutta la Sicilia occidentale, e anche al di là del mare.

In una parola, se Sangiorgi avesse vinto la sua battaglia, nessuno avrebbe mai più potuto negare l'esistenza della mafia. Ma Sangiorgi fallì. Se il suo rapporto è la clamorosa dimostrazione del fatto che nel 1898 i governanti dell'Italia sapevano con precisione che cos'era la mafia, è giocoforza concludere che il suo fallimento, e la maniera in cui il suo prezioso bagaglio di conoscenze cadde nel dimenticatoio, costituiscono un'inquietante lezione sul come il sistema politico italiano ha aiutato la mafia a sopravvivere fino a oggi.

Sangiorgi non era soltanto un bravo poliziotto, la sua indagine di polizia portò alla luce un'intricata serie di delitti, una serie di vicende di assassini e d'inganni tra loro intrecciati che illustravano il carattere brutale e la labirintica complessità dell'influenza esercitata dalla mafia a ogni livello della società siciliana. La maggioranza delle storie di Sangiorgi hanno per ambiente la parte occidentale della Conca d'Oro che descrive una curva intorno alla periferia di Palermo. La zona era famosa per la sua bellezza e fertilità già in epoca romana. L'élite danarosa di Palermo costruì le sue residenze extraurbane in mezzo ai giardini di limoni della Conca d'Oro. All'epoca dell'arrivo di Sangiorgi a Palermo, lo yatch set aveva fatto della capitale siciliana uno dei suoi luoghi di svago preferiti, una Parigi sul mare. Spinto dal desiderio di scoprire i segreti della mafia, Sangiorgi segui gli uomini d'onore lungo le tenebrose vie sotterranee che collegavano la gente comune di Palermo alla vita dorata dell'alta società siciliana, celebrata in tutto il mondo.

Allora come oggi, non soltanto era molto difficile farsi un'idea delle cose di mafia, ma c'era uno scarto considerevole tra ciò che si sapeva e ciò che si era in grado di provare. Il problema stava di fronte alle autorità era quello di convincere le fonti a diventare testimoni. È questo il motivo per cui nel suo rapporto Sangiorgi non fa i nomi della maggioranza delle persone che gli avevano fornito informazioni. Terrorizzati dalla capacità dell'organizzazione di punire chiunque collaborasse con la polizia e in Procura, costoro erano disposti a parlare solamente in via confidenziale. Il viaggio di Sangiorgi in cerca dei segreti del Fondo Laganà poté cominciare solo quando s'imbatte in una coraggiosa eccezione a questa regola.

Il 19 novembre 1898, Sangiorgi dispose che i suoi agenti interrogassero Giuseppa Di Sano, l'eroina nascosta del Rapporto Sangiorgi. In quel momento Giuseppa si arrabattava per sbarcare il lunario vendendo generi alimentari e altre merci agli abitanti della zona nei pressi del Giardino Inglese. Ma aveva anche altre preoccupazioni meno ordinarie. Il comandante della locale stazione dei carabinieri si faceva vedere troppo spesso nel suo negozio. Troppo spesso vuol dire più spesso di quanto richiedessero le necessità di approvvigionamento della stazione in cibo e vino. Naturalmente gli affari erano benvenuti. Ad angustiare Giuseppa erano le chiacchiere: il quartiere brulicava di voci secondo le quali l'ufficiale stava cercando di persuadere Emanuela, la figlia diciottenne, a iniziare una relazione. Era un grosso problema per una piccola commerciante in una comunità che non era famosa per i suoi buoni rapporti con le forze dell'ordine. Bisognava mettere a tacere le voci, e senza offendere l'ufficiale.

Né i guai di Giuseppa finivano qui. Il proprietario di una conceria locale aveva mandato i figli a fare spese da lei. Essi insisterono per pagare con banconote e monete che Giuseppa sapeva essere false. E sapeva che quella famiglia aveva amici pericolosi. Quando rifiutò con cortesia il denaro offerto, i figli del proprietario della conceria non mollarono. Finì che una banconota di grosso tagli rimase in mano al marito di Giuseppa. Lai allora lo spedì a sistemare la faccenda. Il proprietario della conceria tacitò l'uomo pagando solo in parte il suo debito, e protestando che i suoi figli non sapevano che si trattava di denaro falso.

Quindi si verificò l'episodio più allarmante di tutti. Verso la fine del dicembre 1896 le donne del posto cominciarono d'un tratto a guardare di traverso Giuseppa e a evitare il suo negozio. Infine una massaia entrò e con voce chiaramente udibile si lamentò della presenza nel quartiere di donne «da 22 soldi». Giuseppa sfidò la donna a chiarire che cosa aveva in mente, supponendo che il bersaglio della frecciata fosse sua figlia. La massaia replicò seccamente che stava parlando di spie della polizia. Giuseppa era sconcertata e aveva paura, stava succedendo qualcosa di molto più di minaccioso delle voci su sua figlia, o anche della disputa sul denaro fasullo.

Il 27 dicembre entrarono nel negozio due uomini dall'aria sospetta, uno dei quali era poco più di un adolescente. Sull'altro lato della strada, dirimpetto all'ingresso della bottega, c'era un muro che circondava un limoneto e nel muro si scorgeva un piccolo foro, dal quale Giuseppa si rese conto che i sue stavano controllando se il foro offriva una linea di tiro che permettesse di sparare dentro al negozio.

Quello stesso giorno, entrò nel negozio un giovane forestiero smilzo, di carnagione pallida, che chiedeva mezzo litro di nafta. Raccolse il recipiente e si avviò verso la porta facendo un gesto verso l'altro lato della strada. Attraverso il foro del muro furono sparati due colpi. Giuseppa fu ferita ad una spalla e a un fianco. Mentre cadeva, la figlia Emanuela si fece avanti per aiutarla e fu colpita da una pallottola che la uccise all'istante.3 Quando Sangiorgi chiese a Giuseppa Di Sano di venire in questura per essere interrogata, stava riesaminando un vecchio delitto, i cui responsabili erano stati già catturati.

Ai fini del progresso delle indagini, un'importanza cruciale ebbe il fatto che Giuseppa fosse pronta a testimoniare che l'assassinio della figlia era una faccenda di mafia. Le sue parole avrebbero permesso a Sangiorgi di trasformare questo caso isolato in una prova che la mafia era davvero un'organizzazione criminale con le proprie regole, la propria struttura e, cosa più importante di tutte, la propria maniera di uccidere.

Le fonti di Sangiorgi nel mondo della malavita gli raccontano altresì che la figlia di Giuseppa era stata la prima vittima (accidentale) di una sequenza di tradimenti e di omicidi compiuti da uomini d'onore nella Conca d'Oro. La sequenza s'era messa in moto due settimane prima dell'assassinio di Emanuela, quando i carabinieri avevano fatto un'incursione in una stamperia di banconote false situata vicino al negozio di Giuseppa, e catturato tre uomini presenti sul posto. La mafia sospettò una delazione. L'indagine fu condotta da Vincenzo D'Alba, un uomo d'onore il cui fratello era uno dei mafiosi arrestati durante l'incursione. Non gli ci volle molte per mettere insieme i diversi indizi: Giuseppa Di Sano c'è l'aveva con la malavita locale per la faccenda delle banconote false; lei e la figlia erano in rapporti amichevoli con i carabinieri; e cosa più importante il cognato di Giuseppa aveva installato un torchio nell'officina meccanica che fungeva da copertura per l'attività dei falsari. Tutto sembrava puntare nella stessa direzione. Prima ancora di illustrare la sua tesi ai membri della cosca, Vincenzo D'Alba incaricò la madre di orchestrare una campagna di dicerie utilizzando le donne della zona. Lo scopo era rovinare sia l'attività commerciale di Giuseppa che la sua reputazione: se una persona è impopolare, è probabile che se ne sentirà di meno la mancanza, ed è altrettanto probabile che le indagini sulla sua morte saranno meno scrupolose. Il 26 dicembre Giuseppa Di Sano fu condannata a morte dalla cosca mafiosa di Falde per una violazione dell'omertà che in realtà non aveva commesso. Ventiquattr'ore dopo D'Alba e il suo complice tentarono di eseguire la sentenza, ma riuscirono soltanto a uccidere la figlia.

Quest'assassinio deliberatamente pubblico voleva dire: sfidiamo chiunque abbia visto ad andare dalla polizia. La cosca di Falde stava esibendo il suo controllo sul territorio.

Probabilmente aveva bisogno di farlo. L'ipotesi di Sangiorgi era che la perdita della stamperia clandestina di banconote si fosse fatta sentire molto al di là del territorio della cosca di Falde, in cui era situata. Come i falsari avevano bisogno di una rete più ampia per mettere in circolazione la loro «moneta», così i proventi di questa attività si distribuivano tra varie cosche. In conclusione, il prestigio della cosca di Falde era stato compromesso dall'incursione, col risultato che essa aveva bisogno di dimostrare velocemente al resto dell'organizzazione che tutto rimaneva sotto controllo. Quando la mafia uccide, lo fa nel nome di tutti i suoi affiliati. Fa le consultazioni, allestisce processi, cerca il consenso, si sforza di giustificare la propria azione agli occhi dei suoi sostenitori e di far vedere chi è che comanda4.

Pochi giorni dopo l'omicidio, il suo complice, Giuseppe Buscemi fu interrogato dalla polizia. Com'era naturale per un mafioso, Buscemi aveva il suo alibi, ma per meglio assicurarsi la libertà raccontò che dieci minuti dopo la sparatoria aveva visto Vincenzo D'Alba, pallido e tremante, in un tabaccheria di via Falde. Ne seguì l'arresto D'alba il quale fu condannato a vent'anni di prigione. Per Sangiorgi il tradimento di Buscemi era una violazione stupefacente delle regole dell'omertà, ma d'avanti ai capi mafiosi Buscemi sostenne disinvoltamente che l'aveva fatto per distogliere i sospetti della mafia nel suo complesso, e che s'era sempre proposto di cambiare la storia in seguito, per aiutare il suo complice a confondere gli inquirenti.

Grazie ai meticolosi colloqui con gli informatori della polizia, e al paziente riesame di tutto il materiale di prova, Sangiorgi cominciava a mettere insieme un quadro completo del modus operandi della mafia, e a capire che i suoi aspri conflitti interni non erano semplicemente il prodotto di una peculiare fierezza banditesca, ma implicavano leggi, procedure giudiziarie e un sistema di controllo territoriale. La fase successiva dell'indagine portò il questore dal Fondo Laganà alla vita domestica delle più ricche e famose famiglie siciliane: i Florio e i Whitaker. Sangiorgi scoprì che queste due opulente dinastie vivevano fianco a fianco con la mafia, benché con atteggiamenti diversi. Una era cinica l'altra, l'altra più remissiva; ma entrambi erano complici nella perpetuazione del potere della mafia.

Nel Rapporto Sangiorgi di legge che una mattina del gennaio 1897 Ignazio e Franca Florio furono svegliati presto dalla servitù. Ignazio si infuriò quando scoprì che durante la notte la villa aveva subito un furto: erano stati rubati numerosi oggetti d'arte. Ma in quest'episodio senza precedenti la parte più oltraggiata non era il commendator Ignazio Florio, bensì l'uomo che essi redarguì aspramente ordinandogli di sistemare la faccenda: il suo giardiniere. Francesco Noto, un uomo ben costruito, calvo, baffi spioventi, non avrebbe accettato una strigliata del genere da nessun altro, il giardiniere infatti era il capo della cosca mafiosa dell'Olivuzza. Non dobbiamo farci ingannare da queste umili mansioni ufficiali, perdendo di vista l'immensa importanza strategica e simbolica del compito di proteggere la villa della più ricca famiglia siciliana, il cuore dell'alta società di Palermo. Erano i fratelli Noto i veri bersagli del furto compiuto nella villa dell'Olivuzza, e sapevano chi l'aveva compiuto.

Le indagini del questore Sangiorgi rivelano che il motivo del furto si legava al sequestro, avvenuto qualche settimana prima, di Audrey Whitaker, una bimba di dieci anni che apparteneva alla principale dinastia imprenditoriale inglese presente in Sicilia.

Il rapimento di Audrey non fu la prima occasione in cui la mafia causò dei guai ai Whitaker, i quali non avevano contatti così buoni come i Florio.

Le misteriose fonti di Sangiorgi non solo avelarono il sequestro segreto del rapimento di Audrey Whitaker, ma raccontarono che l'enorme riscatto stava causando frizioni all'interno della cosca dell'Olivuzza. Due dei suoi affiliati, i cocchieri Vincenzo Lo Porto e Giuseppe Caruso, non erano soddisfatti della loro parte del bottino e decisero di compiere uno «sfregio». Come spiega Sangiorgi lo sfregio è un pezzo importante della terminologia mafiosa, e significa due cose, tra loro strettamente legate: è un affronto, un'azione ingiuriosa il cui scopo è far perdere la faccia alla sua vittima. Poiché per la mafia il controllo del territorio è tutto, il più clamoroso degli sfregi consiste nel danneggiare una proprietà protetta da un altro mafioso. Per dirla con Sangiorgi «Tra i canoni della mafia vi è quello del rispetto dell'altrui giurisdizione territoriale, la cui infrazione costituisce personale insulto». Furono Lo Porto e Caruso a rubare gli oggetti d'arte dalla villa dei Florio «lo scopo che si erano prefisso i due cocchieri, quello cioè di umiliare il loro capo e sotto capo, era stato raggiunto»5.

I fratelli Noto reagirono a questo sfregio con una pazienza esemplare. Innanzitutto fecero si che il danno subito dallo loro reputazione agli occhi di Ignazio Florio venisse riparato, promisero ai due ladri una quota più alta per il riscatto Whitaker a cui aggiunsero addirittura una ricompensa per la restituzione degli oggetti rubati ai Florio.

Una volta restituiti i beni ai Florio i giardinieri erano pronti a muovere all'attacco di Lo Porto e Caruso. L'uccisione di qualunque uomo d'onore è un atto potenzialmente destabilizzante, che riguarda l'intera organizzazione mafiosa. Nel caso in questione, la sua importanza era ulteriormente accresciuta dal coinvolgimento della famiglia Florio. Così quando i Noto denunciarono segretamente agli altri boss, Lo Porto e Caruso, il risultato fu una riunione cui parteciparono tutti i capi delle otto cosche. L'incontro si svolgeva sul territorio della cosca di Falde anziché in quello dell'Olivuzza, dominato dai Noto – un altro segno che la decisione aveva implicazioni per l'intera associazione. È chiaro che i Noto aspiravano a qualcosa di più di un semplice verdetto di colpevolezza: come afferma Sangiorgi, il loro obiettivo era un consenso più ampio possibile sulla pena di morte; e ottennero ciò che volevano.

Giunto il momento di eseguire le sentenze, il 24 ottobre 1897 i due cocchieri furono attirati nel Fondo Laganà col pretesto che c'era da fare una rapina, arrivati sul posto furono assassinati e gettati nella grotta.

Quando le mogli dei due cocchieri scoprirono di essere vedove, altri mafiosi gli rifilavano la storia che i loro mariti erano morti eroicamente, uccisi da una banda rivale per essersi rifiutati di partecipare a un piano per il sequestro del fratello di Ignazio Florio, in altre parole, gli fu raccontato che i loro mariti erano morti al servizio dei Florio.

Questa frottola fu smascherata qualche settimana più tardi dalla madre di Ignazio, quando la baronessa Giovanna d'Ondes Trigona si recò in un convento di suore cui era benefattrice, la vedova di Vincenzo Lo Porto si accosto alla carrozza e gli chiese aiuto per far crescere il proprio figlio. Le sue speranze furono infrante dalla risposta della baronessa: «Non mi seccate, perché vostro marito era un ladro che veniva a rubare nel mio palazzo assieme al Caruso».Quando le due vedove si fecero avanti a raccontare ciò che sapevano, fu immediatamente chiaro a Sangiorgi che la baronessa conosceva l'intera storia che stava dietro il furto alla villa6.

Sangiorgi continuò a spedire nuovi capitoli del suo rapporto fino alla fine del 1898, e ancora nei primi mesi del 1899. in ciascun studio del suo lavoro la mafia adottò delle contromisure del caso. Il fratello di uno dei due cocchieri fu spinto al suicidio e un informatore affiliato alla mafia utilizzo un passaporto offerto dalla polizia per sfuggire alla vendetta delle cosche ma fu assassinato.

Il 25 ottobre 1899 arrivò la grande occasione del questore. Un noto uomo d'onore fu arrestato in flagrante sulla scena di una sparatoria. La vittima designata dall'aggressione sopravvisse, e tra la stupefazione generale si rivelò essere niente meno che il «capo regionale o supremo» della mafia: Francesco Siino.

Sangiorgi colse l'occasione con rapidità e intelligenza, puntando di nuovo a sfruttare quella che ora sapeva essere la potenziale debolezza della mafia: le sue donne. Tenne nascosto Siino, e fece sapere che il capo ferito era vicino alla morte. Quindi portò la moglie di Siino davanti al killer arrestato. La donna non riuscì a controllarsi e gridò: «Infame! Infame!» (l'abituale insulto mafioso per un traditore). E subito accusò lui e i suoi associati di una serie di delitti. Era l'inizio della sua collaborazione con la giustizia. Ben presto informato che la moglie aveva parlato con Sangiorgi, Francesco Siino cominciò anche lui a raccontare di quella che chiamava una «compagnia di amici». Ora Sangiorgi aveva il pentito di cui aveva bisogno per costruire il suo dossier accusatorio.

Gli interrogatori del nuovo transfuga permisero a Sangiorgi di comprendere gradatamente la guerra di mafia dall'interno; e, cosa altrettanto importante, lo misero in grado di dimostrare che la guerra non era una semplice, caotica successione di scontri tra bande distinte, ma il risultato di una crisi all'interno di un'organizzazione unitaria. Sangiorgi cominciò a capire che anche quando è in guerra la mafia ha le sue regole, il suo linguaggio, la sua diplomazia, e perfino la sua memoria storica.

Quando la polizia seppe del suo rango di «capo regionale o supremo» l'autorità di Francesco Siino in seno alla mafia stava già declinando. Il potere della ricchezza e dell'influenza (e con esso il centro di gravità della mafia) non era nelle mani di Siino, ma di un'alleanza delle Famiglie di Passo di Rigano, Piana dei Colli e Perpignano, e il patron di questa alleanza aveva un nome che conosciamo bene: don Antonio Giammona. Le responsabilità della gestione degli affari quotidiani nella zona era passata nelle mani del figlio, divenuto il capo. Ma secondo Sangiorgi il vecchio Giammona rimaneva le «mente direttiva». Forniva «consigli informati alla sua lunga esperienza di vecchio pregiudicato, ed istruzioni sul modo di consumare i delitti e di crearsi le posizioni a difesa, specialmente gli alibi». La sua perdurante influenza dimostrava che i mafiosi non erano un'effimera banda di malviventi. In quegli anni il «tenebroso sodalizio» era ormai da un quarantennio un ingrediente consolidato della società palermitana7.

In seguito all'ondata di omicidi, la polizia sequestrò le licenze di porto d'armi dei membri di tutte le più importanti famiglie mafiose, compresi i Giammona e i Siino. La mafia rispose facendo appello alla alte sfere della politica e della società. Una serie di illustri personaggi pubblici - parlamentari (tra i quali don Raffaele Palizzolo), uomini d'affari e perfino una principessa – accolsero premurosamente l'appello, fornendo le referenze personali necessarie per ottenere la restituzione delle licenze. Quanto ai Giammona, il loro patrono fu il vecchio amico di famiglia, il figlio del barone Nicolò Turrisi Colonna, l'espreto della «setta». Nei settori della borghesia palermitana vicini alla mafia era stata fatta circolare la voce che i Siino erano stati espulsi dall'onorata società, col risultato che vennero abbandonati al loro destino.

La notte del 28 aprile 1900 il questore ordinò l'arresto dei mafiosi i cui nomi erano elencati nel suo rapporto. I poliziotti e i carabinieri coinvolti nell'operazione furono informati della natura del compito da assolvere quella notte soltanto all'ultimo momento, in modo da impedire fughe di notizie. Trenta sospetti vennero arrestati subito, e molti altri durante i mesi successivi. Nel ottobre del 1900 il prefetto di Palermo riferì che Sangiorgi aveva ridotto la mafia «al silenzio e all'inazione»8.

Un veterano della lotta alla mafia come Sangiorgi aveva sempre saputo che ricavare delle sue indagini frutti concreti sarebbe stato difficilissimo. Si rendeva inoltre conto che per avere una pur minima probabilità di successo aveva bisogno di un appoggio politico. Nel novembre 1898 Sangiorgi aveva scritto una lettera d'accompagnamento indirizzata al prefetto, ma in effetti destinata al presidente del Consiglio:

Ho specialmente bisogno del di Lei autorevole e legittimo interessamento presso l'Autorità Giudiziaria e di tutti il di Lei appoggio presso il Governo, perchè, disgraziatamente, i caporioni della mafia stanno sotto la salvaguardia di Senatori, Deputati, ed altri influenti personaggi che li proteggono e li difendono, per essere poi a loro volta, da essi protetti e difesi9.

Il primo segno dell'opposizione a Sangiorgi fu semplicemente la lentezza con sui il procedimento faceva il suo corso. Il procuratore generale di Palermo stava dimostrandosi meticolosissimo. Era il destinatario ufficiale del Rapporto Sangiorgi, ma dopo ciascun arresto l'ufficio del Procuratore rispediva l'intero dossier al magistrato inquirente che lavorava insieme con il questore, in modo da poter aggiornare il materiale probatorio. Per l'apertura del processo bisognò aspettare un anno dopo i primi arresti. Delle centinaia di mafiosi incriminati, soltanto ottantanove finirono sul banco degli imputati con l'accusa di appartenere all'associazione criminale responsabile degli omicidi dei quattro uomini scomparsi. Quanto agli altri, il Procuratore generale non giudicò le prove abbastanza convincenti per portarli in giudizio. Tra i prosciolti, il personaggio più notevole era Antonio Giammona.

Sangiorgi non biasima mai il Procuratore generale, il napoletano Vincenzo Cosenza. Sembra tuttavia probabile che spedendo una copia del suo rapporto al governo a Roma sperasse proprio in un consenso contro Cosenza. Certo non l'avrebbe stupito apprendere che nel mese precedente l'inizio del processo, quasi due anni e mezzo dopo l'invio del primo capitolo del suo rapporto, Cosenza aveva scritto al nuovo ministro dell'Interno, dichiarando «Della mafia non mi sono mai accorto nell'atto di esercitare il mio ministero»10. È giocoforza supporre che il Procuratore Cosenza fosse l'elemento chiave del sistema creato dalla mafia per proteggersi contro la legge. È forse un segno del suo successo che a tutt'oggi di lui si sappia pochissimo. Se il questore Sangiorgi è un eroe nascosto della storia della mafia, il Procuratore generale Cosenza né è probabilmente un fellone occulto.

Quando finalmente cominciò, nel maggio 1901, il processo alla cui preparazione Sangiorgi aveva lavorato per tanto tempo fu seguito con passione sia dalla folla enorme che si accalcava in aula, sia dalla stampa, che gli dedicò interi resoconti. L'intera città di Palermo vide il lavoro del questore dipanarsi sotto i suoi occhi. Il teste chiave era Francesco Siino, l'ex «capo supremo», il quale negò di aver mai parlato a Sangiorgi di un'associazione criminale come tale. Un uomo che possedeva un fondo contiguo alle terre dei Giammona dichiarò che «I Giammona tutti si sono mostrati generosi con coloro che hanno avuto relazioni di affari con loro e so che do loro non se ne dice che bene». John Whitaker negò che la figlioletta Audrey fosse stata mai rapita, Ignazio Florio junior non si degnò neppure di venire in aula. Ci fu almeno un testimone che non deluse Sangiorgi malgrado le minacce, Giuseppa Di Sano la quale con coraggio raccontò tutta la storia dell'uccisione della figlia, ed anche le vedove dei due cocchieri si presentarono al banco dei testimoniare11.

Nel giugno 1901, soltanto trentadue dei mafiosi arrestati da Sangiorgi furono giudicati colpevoli di aver dato vita a un'associazione criminale. Tenuto conto del tempo già trascorso in carcere, la maggior parte di costoro furono rilasciati immediatamente. Per Sangiorgi era una vittoria così modesta, da apparire piuttosto una sconfitta. Intervistato sul processo, ebbe parole che tradivano la sua amarezza: «Non poteva essere diversamente, se quelli che li denunziavano la sera andavano a difenderli la mattina»12.

Una volta conclusosi con risultati così mediocri il processo messo in moto da Sangiorgi, ci sarebbe voluto un energico sforzo politico per intraprendere nuove azioni contro la mafia e il suo sistema di protezioni. Ma dopo i drammi dell'ultimo decennio dell'Ottocento la vita politica italiana stava tornando alla normalità. Per gli uomini politici di Roma, la lotta alla mafia era ancora una volta uno sgradito intralcio sulla via di quello che era l'impegno centrale della loro azione di governo: costruire effimeri patti tra le fazioni. C'era bisogno di alleati, e li si cercava ovunque. Se provenivano dalla Sicilia occidentale, e tanto meglio se vicini alla lobby armatoriale dei Florio, sarebbe stato controproducente indagare sulle loro amicizie poco raccomandabili. Il rapporto Sangiorgi finì in archivio, ma non era ancora finita, Sangiorgi aveva ricevuto l'incarico da Pelloux di investigare sugli affari di un uomo di grande spicco: don Raffaele Palizzolo.

1Cancilia, p. 237.

2DGPS, aa.gg.rr. Atti speciali (1898-1940), b.1, f.1

3Archivio Centrale dello Stato, Rapporto Sangiorgi, p. 117.

4Archivio Centrale dello Stato, Rapporto Sangiorgi, p. 120-21.

5Archivio Centrale dello Stato, Rapporto Sangiorgi, p. 38.

6Archivio Centrale dello Stato, Rapporto Sangiorgi, p. 137.

7Archivio Centrale dello Stato, Rapporto Sangiorgi, p. 37.

8Archivio Centrale dello Stato, Rapporto Sangiorgi, p. 335-36.

9Archivio Centrale dello Stato, Rapporto Sangiorgi, p. 1.

10Barone, Egemonie urbane, p. 317.

11«Giornale di Sicilia», 20-21 maggio, 1901.

12CS, 30-31 ottobre 1901.

 

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