Il primo delitto eccellente: l'omicidio Notarbartolo.
18.05.2013 11:07
Il 1° febbraio 1893, su una carrozza ferroviaria in corsa sulla linea Termini-Palermo, viene assassinato Emanuele Notarbartolo di San Giovanni, rampollo di una delle più eminenti famiglie aristocratiche siciliane, esponente della Destra storica ma personaggio super partes, apprezzato unanimemente per la dirittura morale e per le capacità amministrative dimostrate quale sindaco di Palermo (1873-76) e direttore generale del Banco di Sicilia (1876-90)1.
Non si tratta di un episodio di terrorismo politico come quelli del periodo postunitario. L'aggressione brigantesca sembra da scartare se non altro per lo scenario così «moderno» e rassicurante da indurre la vittima ad abbandonare le precauzioni che mantiene dal 1882, quando ha subito un sequestro, scaricarsi il fucile che porta con sé e addormentarsi («Tra il brigante e la ferrovia c'è una incompatibilità completa, c'è un anacronismo»)2. L'omicidio viene compiuto con un'arma, il coltello, più usato per delitti passionali che in quelli «per mandato»(«L'arma di cui il sicario si serve […] è sempre quella da fuoco»)3. Non siamo all'interno della lotta tra pari per le gabelle o la guardianìa: sappiamo che i mafiosi del Palermitano non usano uccidere proprietari, tanto meno uomini così eminenti. Eppure la «voce pubblica» ipotizza un delitto di mafia, anzi, afferma il procuratore generale Sighele, di «alta mafia»4, indicando come esecutori due esponenti della cosca di Villabate, Matteo Filippello e Giuseppe Fontana, come mandante Raffaele Palizzolo. «Nei pubblici ritrovi,nelle vie, ovunque si diceva: la mano dev'essere stata di Palizzolo»5.
Questo delitto segna un salto di qualità, ma per certi versi rimane un picco isolato, un segnale di sviluppi futuri. Per avere la giusta scala di riferimento, si pensi che per più di un secolo la mafia ha ardito colpire così in alto solo in questo caso. Quello di Notarbartolo è il primo dei cadaveri eccellenti, nonché l'ultimo sino alla morte del procuratore generale Pietro Scaglione, e quindi dall'Unità al 1971. A grande delitto, grande reazione. L'emergenza mafia si impone non solo alla Sicilia, ma all'intera nazione grazie anche al fatto che i tre processi Notarbartolo vengono celebrati, per legittima suspicione, a Milano (1899-1900), Bologna (1901-2), Firenze (1903-4)6; e perché la stampa, dando chiaro risalto ai dibattimenti, «nazionalizza» l'oscuro oggetto mafia, peculiarità dell'estrema provincia meridionale del paese, ben più di quando sia avvenuto con la discussione parlamentare del 1875. A cominciare da quello che il marchese di Rudinì chiama il «palcoscenico di Milano»7,tutti gli italiani assistono a un sensazionale spettacolo nel quale fungono da comparse le centinaia di testimoni provenienti dalla Sicilia, vestiti in strane fogge, che si esprimono in un idioma reso comprensibile solo da interpreti nominati dai magistrati.
Nel primo processo compaiono solo i due imputati, i ferrovieri Garufi e Carollo che la logica dei fatti vuole complici dell'assasinio; nessun addebito viene mosso a Palizzolo e Fontana (i sospetti contro Filippello erano caduti). La soluzione non sta bene alla famiglia Notarbartolo, e soprattutto al figlio del morto, Leopoldo, che ha dovuto mordere il freno di fronte alle esitazioni, alle contraddizioni dell'inchiesta, e che ora, «all'aria libera di Milano»8, mette in atto il classico colpo di scena accusando Palizzolo.
“Io non vi so dire il fremito d'ansia, la sospensione d'animo dei magistrati, dei giurati, del pubblico a queste parole; invincibilmente una attenzione acuta, dolorosa quasi legò il pretorio alla parola rapida, incisiva, sicura di quel giovane ventottenne che veniva a reclamare vendetta contro il presunto potente assassino del padre”9.
Sotto la spinta della parte civile,il processo si trasforma in una «pubblica istruttoria» contrapposta all'istruttoria ufficiale. L'ispettore di Ps Cervis accusa il collega Di Blasi, creatura di Palizzolo, di aver depistato le indagini e di aver occultato prove. Di Blasi viene arrestato in aula. Un'inchiesta promossa dal prefetto di Palermo riesuma un biglietto con cui, appena il giorno dopo l'assassinio, l'ispettore incriminato aveva richiesto sua sponte, di essere destinato alle indagini indicando «piste» fantastiche, e conclude «La di lui intima relazione con comm. Palizzolo dà motivo di dubitare che non sia stato estraneo in lui l'interesse di avere in mano le fila della matassa per salvare il suo amico e protettore»10.
Cervis lascia intendere che il «partito» Palizzolo abbia trovato indulgenza, se non complicità, nel questore di Palermo del 1893, Ballabio, il quale messo a confronto col Di Blasi esplode in una crisi di nervi definendolo un «mentitore e un vile [che] ha portato il disonore sulla questura di Palermo»11. Il generale Mirri, al 1899 ministro della Guerra del governo Pelloux e capo della pubblica sicurezza in Sicilia nel periodo dello stato d'assedio, accusa la magistratura di «massima rilassateza, negligenza, anzi colpevolezza»12. Tuona il successivo questore, l'ex ispettore Lucchesi: «Una mano magica, misteriosa ma potente, ha influito a questo processo! Così si spiega come [esso] vanga a svolgersi dopo sei anni mentre sarebbero bastati appena quattro mesi»13. Tutti costoro testimoniano della «capacità a delinquere» di Palizzolo e dei suoi rapporti con la mafia. Come si vedrà, cia il generale che il questore hanno qualcosa da farsi perdonare, dando così il loro contributo a uno scandalo «troppo largo e indefinito» che, notano preoccupati Pelloux e Sonnino, mette in discussione gli stessi equilibri politici14.
Sul palcoscenico di Milano gli attori recitano un copione talmente sovversivo da indurre il locale comando militare a proibire agli ufficiali la frequenza nelle aule del processo15; ma tutti, presenti e assenti, gli invitati speciali restituiscono il quadro degli avvocati che accusano le istituzioni di complicità, dei politici e dei poliziotti che si incolpano reciprocamente, per lo scorno dei bempensanti e la gioia dei sovversivi. I primi devono ammettere la presenza di «un veleno misterioso, sottile […]: fiorisce sotto la scorza della mafia la forza della politica, sotto la scorza della politica la forza della mafia»16; i secondi possono constatare la miseria dello Stato che pretende di giudicarli:
Altro che «negligenza» sia pure massima, altro che «trascuratezza» sia pure enorme, c'è in tutto ciò. Più che «colpevolezza» c'è il delitto organizzato nell'amministrazione della giustizia, c'è la giustizia complice e protettrice degli assassini, c'è l'infamia, la vergogna, il disonore17.
Su certi episodi, ammette il procuratore generale milanese, il giudizio va demandato alla «pubblica opinione, la quale spesso non falla e distribuisce a che spetta, secondo giustizia, la lode e il biasimo»18. Ma per la pubblica opinione le responsabilità si distribuiscono tra magistrati, questori e prefetti, investendo i governi sotto i quali le indagini sono state insabbiate. Tra questi, paradossalmente, c'è quello presieduto dal marchese Rudinì, amico personale di Emanuele Notarbartolo e leader della sua parte politica, la Destra. Sono gli anni (1896-97) del commissariato civile per la Sicilia, da Rudinì affidato a Codronchi il cui compito ufficiale è quello battere le clientele; mentre il compito reale, nota sarcasticamente Sonnino, è quello di creare un «Commissariato elettorale» che disperda il partito crispino e ne recuperi l'ala moderata riaggregando attorno al governo le forze disponibili19. A tal fine Codronchi è l'uomo adatto: esponente della Destra inviso alla democrazia isolana sin dal 1875, ma nel 1889-90, come prefetto di Napoli, fedele esecutore della politica di Crispi. Nell'aprile del '96, prima ancora della sua nomina ufficiale, Codronchi esprime i propri propositi:
Tutti sanno chi fu il mandatario, chi fu il mandante. La giustizia si è fermata davanti a qualche pezzo grosso amico di Crispi. […] Ho detto al Rudinì che non intendo di arrestarmi davanti anche ai suoi amici, al deputato Palizzolo, per esempio. Rudinì mi ha risposto: sta bene, Palizzolo è una canaglia20.
Codronchi si sopravvaluta. La riapertura del caso si deve probabilmente a istruzioni di Rudinì, peraltro non facili da soddisfare dato che gli indizi finiscono per gravare non sui crispini ma su Palizzolo, il quale per quanto «canaglia» rappresenta uno dei puntelli della destra. D'altronde parte il deputato ha un assoluto bisogno dell'appoggio governativo; ai sospetti sul caso Notarbartolo si aggiungono quelli sull'assassinio di Francesco Miceli, che gli attribuisce a una persecuzione di Giolitti, donde le motivazioni pseudo-garantiste su cui gioca il suo appoggio al progetto di commissariato civile:
Non appena avviene un grande delitto nella provincia, è nel gabinetto del prefetto che si stendono i primi atti processuali, il prefetto non disdegna l'opera di qualche consigliere aulico, il quale potrebbe essere un candidato politico ministeriale per le prossime elezioni […]. Autore di ogni crimine o delitto è da loro sempre ritenuto il candidato di opposizione, complici più o meno necessari i suoi amici e sostenitori21.
Non deve dunque sorprendere la spiacevole situazione nella quale cade Leopoldo Notarbartolo trovando Codronchi in conciliabolo con Palizzolo22. Nei mesi seguenti si intreccia uno scambio quotidiano nel quale il conte imolese dà le istruzione per l'alta politica, il parlamentare palermitano si occupa della gestione locale: scioglimento di amministrazioni comunali, quotizzazione di terreni demaniali, dilazione dei debiti di qualche società, scelta dei farmacisti chiamati a gestire il servizio per i poveri di Palermo, composizione del corpo delle guardie daziarie23. Molto attento è il deputato alla scelta dei tutori dell'ordine: protesta per il trasferimento da Palermo del delegato di Ps Olivieri, che definisce «mio elettore affezionato che potrebbe grandemente giovarmi», mentre «si lasciano in questa [provincia] e nel mio collegio altri funzionari a me non benevoli!»; interviene in favore di un ex delegato, un certo Francesco Saitta, suscitando stavolta l'indignazione dell'alto commissario che scrive: «Questo Saitta fu condannato e destituito; e lo si raccomanda perchè lo nomini capo delle Guardi campestri!». Particolarmente interessato si dimostra Palizzolo ad ottenere la nomina ad assessore alla polizia urbana nell'amministrazione clerico-moderata, guidata dal senatore Amato-Pojero, che grazie alla regia di Codronchi si insedia nel '97 al municipio palermitano:
Io ho numerosi amici dei quali si sono calpestati i diritti e le ragioni ed essi tengono immensamente a che io, anche per un mese faccia parte del Potere esecutivo [sic!]. […] L'Amato avrebbe dovuto pendere dai sapienti consigli della E.V. E da quelli degli amici senza i quali esso non potrà restare 48 ore al posto di Sindaco24
Per capre di quali «amici» si tratta si noti che in vista delle elezioni amministrative nel capoluogo isolano è stata varata una riforma del sistema elettorale che garantisce ai candidati espressi dalle borgate un peso spropositato: secondo De Felice, personaggi in odor di mafia vengono così eletti con decine di voti, mentre al centro sono bocciati candidati dell'opposizione che hanno ottenuto più di mille suffragi; tra gli altri un Salvatore Licata, figlio dell'Andrea che abbiamo conosciuto negli anni settanta25. Solo Palizzolo può tenere sotto controllo simili personaggi. Non può sorprendere dunque che nel '97 Codronchi si dichiari certo dell'innocenza di Palizzolo e sospettoso piuttosto dei crispini Figlia e Tenerelli26.
Questore di Palermo è Lucchesi, che l'alto commissariato reputa «uomo abilissimo, [che] conosce tutto e tutti», pur prevedendo di doverlo allontanare perché un «poco di buono»27. Si tratta in effetti di un fine strumento di polizia, almeno dai tempi di Mulusardi addentro ai «veleni» palermitani; una volta, sorpreso in amichevole conciliabolo con un celebre mafioso, avrebbe esclamato: «Vedete a che cosa sono costretto? Costui meriterebbe le manette, e volentieri lo condurrei io stesso al carcere»28. Davvero singolari le istruzioni, date dal questore ai suoi subordinati nell'estate del '96, di non dar corso a nessuna delle denunce contro i mafiosi di Villabate «onde evitare che persone diffamate per gravi misfatti si [diano] alla latitanza compromettendo le condizioni della sicurezza pubblica»29. Questo è l'uomo che deve riaprire il caso, con il nuovo procuratore generale, Vincenzo Cosenza. Si decide di puntare sulle «propalazioni» di un detenuto, certo Bertolani, secondo il quale Fontana (allora in carcere a Venezia per traffico di banconote false) si sarebbe vantato di aver ucciso Notarbartolo; come mandante, Bertolani – interpretando in maniera estensiva i desideri dei suoi protettori – indica nientemeno che Crispi30. Ciò consente la revisione dell'istruttoria e l'incriminazione di Garufi e Carollo, non quella di Fontana il cui alibi sembra inattaccabile anche perché Cosenza non pone a confronto con Lucchesi il ferroviere Diletti, che aveva confidato al questore di aver riconosciuto il mafioso come l'uomo presento sul treno il giorno del delitto; non pressato, il teste ritratta, e solo al processo tornerà ad accusare Fontana31.
Come si vede, nel 1896-97 funzionano meccanismi diversi da quelli messi in atto nel '93 dalle aderenze palizzoliane. Codronchi è determinato a trovare il mandante, poi, quando tutte le piste portano verso Palizzolo, finisce per puntare solo su Fontana; obiettivo fallito anch'esso per la riluttanza di Cosenza. D'altronde, sia l'alto commissariato che il suo ancor più alto ispiratore politico resteranno convinti che il loro ex alleato non sia colpevole, o almeno non sia l'unico colpevole:
Io non mi porto garante di Palizzolo – scrive Rudinì a Codronchi nel dicembre del '99 -. La corrente d'opinione che si è formata contro di lei dice che è uomo capace a delinquere. Ma […] l'accanimento posto, nella prima istruttoria, contro di lui, dimostra, quasi, che si sia cercato ad arte di fuorviare la giustizia allontanandola dalla buona pista32.
La lettera richiama alla calma nei giorni convulsi del processo di Milano in cui tutti tentano di scaricare Palizzolo. Rudinì continua a sostenere che il vero scandalo sta nella mancata incriminazione di Fontana, e che quindi «se vi è del marcio» esso va ricercato nella magistratura33; a Codronchi vengono strappate limitate ammissioni sulla «capacità a delinquere» di Palizzolo. Invece Lucchesi tuona contro i magistrati ma anche contro il deputato, senza accorgersi che mette in difficoltà i suoi protettori: «questo suo contegno – commenta stizzito ancora Rudinì – mi sembra meraviglioso!»34 La spiegazione dell'atteggiamento dell'ex questore, secondo il prefetto palermitano De Seta, è semplice: «Egli informò la sua azione al calcolo del tornaconto personale: conveniva mostrarsi violento contro Palizzolo, del quale in altri tempi era stato l'amico»35.
A Palermo gli avvenimenti preoccupano la magistratura così pesantemente chiamata in causa; Cosenza protesta per lo spazio che il tribunale milanese dà all'«ignobile e nauseabondo spettacolo di […] una privata vendetta»36. La procedura atipica viene giustificata dalla parte civile come una «rivoluzionaria» forzatura di fronte alle influenze palizzoliane proprio sul procuratore «che dolorosamente dimostrò come da lui non si possa sperare il trionfo del vero e della giustizia»37. Se Palizzolo punta sulla macchina giudiziaria e polizesca palermitana, i Notarbartolo utilizzano la loro rete di relazioni nel campo moderato-aristocratico, in particolare nei mesi del processo di Milano, grazie all'appoggio fornito da Umberto I su richiesta del principe di Camporeale e per il rapporto personale che unisce lo zio Leopoldo Notarbartolo, il maggiore dell'esercito barone Gaetano Merlo, al capo del governo generale Pelloux:
Vedevamo che il Ministero ci sosteneva – scriverà lo stesso Notarbartolo jr. - Se una matassa si aggrovagliava mio zio […] pigliava il treno per Roma e otteneva dal suo amico Pelloux tutto quello che volevamo. Così riuscimmo ad assicurare alla giustizia i documenti riservatissimi del Banco di Sicilia, della Questura e del comando dei RR Carabinieri di Palermo, e fin quelli del Ministero degli Interni38.
L'affaire registra però un'inedita commistione tra questo blocco di forze di estrazione tradizional-moderata e l'estrema sinistra, la quale gioca un ruolo di primo piano innanzitutto nella gestione del processo: Leopoldo Notarbartolo si è affidato a due avvocati socialisti, Carlo Altobelli e Giuseppe Marchesano, il quale viene a rappresentare il ponte verso il socialismo palermitano di Aurelio Drago e del principe Alessandro Rasca di Cutò. Negli anni degli scandali bancari, la convergenza è meno paradossale di quanto potrebbe sembrare; tra destra e sinistra esiste un punto di contatto nella denuncia della commistione tra affarismo, politica e amministrazione, nella critica delle degenerazioni del sistema rappresentativo che porta all'utilizzazione della mafia: «Cosa dovrebbe fare il governo? - si chiede Drago – Combatterla?E chi farà le elezioni? Dunque organizzarla. E il governo l'organizza, l'arma, la paga»39.
Socialisti e radicali hanno peraltro bisogno di rientrare nel gioco politico da cui lo stato d'assedio del 1894 li ha tagliati fuori, e, su una comune posizione anticrispina, cercano di avvicinarsi ai rudiniani già con Codronchi; ma le avances non trovano risposta, donde le violente accuse che nel '99 soprattutto Giuseppe De Felice Giuffrida, il socialista catanese già dirigente dei fasci, muoverà contro «l'ex viceré di Sicilia». «Siamo i due più presi di mira dal famoso De Felice – scrive Lucchesi a Codronchi – perché Lei da sincero monarchico gli contrastò l'elezione, ed io lo processai e lo mandai in galera»40.
Il processo di Milano segue la violenta repressione dei moti del '98 e la prima fase dell'ostruzionismo parlamentare contro le leggi «liberticide» di Pelloux (giugno '99); gli ultimi due mesi di quest'anno e l'inizio del seguente vedono la sinistra all'offensiva contro un governo così duro verso i socialisti e così arrendevole verso i mafiosi. Come afferma Bissolati, la politica italiana «ha due facce, e sull'una è la figura-simbolo del Palizzolo, sull'altra faccia c'è l'immagine dei deputati De Ambris, Chiesi, Turati, librettati e vigilati dalla Pubblica Sicurezza»; dopo un durissimo discorso di De Felice, uno dei protagonisti dell'ostruzionismo, Pelloux deve ammettere che da Milano viene «una lezione, una dura lezione per tutti»41. L'onda d'urto dello scandalo colpisce d'altronde anche il governo nella persona di Mirri, che deve dimettersi quando il procuratore generale Venturini, da lui violentemente attaccato a Milano, passa al «Tempo» alcune lettere del 1894 nelle quali il generale pretende la scarcerazione del mafioso Saladino, legato ai crispini42. L'8 dicembre, mentre si diffondono voci su una fuga all'estero di Palizzolo (che invece si trova in Sicilia), Pelloux sospende le comunicazioni telegrafiche tra Roma e Palermo e calpestando la procura ottiene che il Parlamento voti immediatamente l'autorizzazione all'arresto, che viene eseguito pur senza un ordine del magistrato.
Questo è un grosso problema, considerando le aderenze palermitane del deputato-carcerato. Come già tante volte nel passato, è evidente la scarsa sintonia in cui si trovano la polizia e la magistratura, che (nota il «Giornale di Sicilia») «anziché essere la naturale alleata e sostenitrice della Pubblica Sicurezza, ne ostala l'azione, la rende impotente e ridicola»43. Il delegato Lancellotti, incriminato per abuso di potere dopo che i membri della cosca da lui inquisita sono stati assolti, «come al solito», per insufficienza di prova, rivela che uno di essi gli ha detto in faccia di sentirsi più che sicuro finché a Palermo c'è il giudice Pezzati, amico di Palizzolo44. Palizzolo in carcere va dicendo di riporre «tutte le sue speranze, tutta la sua fiducia» nel procuratore generale45. Le resistenze di Cosenza alle pressioni del ministro guardasigilli del nuovo governo Saracco, Gianturco46, rischiano di configurare un conflitto tra il potere esecutivo e quello giudiziario, soprattutto allorché il procuratore avoca a sé la requisitoria non fidandosi della sezione d'accusa, colpevolista. Alla fine Cosenza deve rinviare Palizzolo e Fontana a giudizio, ma con motivazioni tali da costruire una sorta di arringa in loro favore. In questo clima di spaccature, pressioni e paradossi, nuovi e più gravi sospetti, si va al processo di Bologna.
È proprio a Bologna che il vero processo a carico di Palizzolo si svolse dinnanzi alla Corte d’Assise di Bologna nell’autunno 1901, dopo che l’anno precedente era giunta l’autorizzazione a procedere da parte del Parlamento nazionale con 230 voti favorevoli e soltanto 18 contrari. Palizzolo era diventato “l’onorevole padrino”, il simbolo dei connubi fra mafia e politica. Dalla Corte bolognese Palizzolo fu condannato a trenta anni di reclusione insieme a Fontana, mentre Garufi e gli altri imputati furono assolti.
Il clima di generale indignazione e di superficiale classificazione nei confronti della Sicilia, che si era instaurato durante i processi portò all’esplosione di vive reazioni di protesta da parte dei siciliani, ma anche di autorevoli intellettuali fra cui Pitrè e De Roberto. Essi, infatti, costituirono un Comitato pro-Sicilia per riscattare l’isola da tali infamie. Quale potè essere il motivo di una simile scelta? Essi, in realtà, volevano riscattare la Sicilia da quell’onta mafiosa che già dal processo di Milano era stata attribuita a quel territorio, volevano evitare che il termine “mafia” potesse connotare tutti i siciliani, anche i siciliani onesti. Tali proteste, unite all’interessamento da parte di Cosa Nostra della vicenda Palizzolo, portarono alla inattuazione della sentenza bolognese, la quale venne portata in Cassazione e poi definitivamente annullata con il rinvio alla Corte di Assise di Firenze. Ritorna a Palermo su una nave, a mo quasi di trionfo Raffaele Palizzolo, onorevole e consigliere d’amministrazione del Banco di Sicilia, il quale, dopo esserci arricchito con la liquidità dei risparmiatori, esser stato condannato per l’omicidio di colui che era stato preposto all’istituto di credito per risanarne la situazione, fu assolto e acclamato dal popolo siciliano che preferì lasciare un delitto insoluto piuttosto che vedersi attribuito l’appellativo di “mafioso".
1Un profilo di Notarbartolo, agiografico ma attendibile ovunque sia stato possibile un riscontro, è tracciato dal figlio, L. Notarbartolo, Memorie della vita di mio padre, Emanuele Notarbartolo di San Giovanni, Pistoia 1949.
2Marchesano, Processo cit. p.213.
3Per l'assassinio del comm. Notarbartolo (24 ottobre 1896), p. 1, in BCI, Carte Codronchi, Commissariato civile per la Sicilia, cat.16, Processo Notarbartolo, b. 8217.
4Relazione al guardasigilli del 26 febbraio 1894, p.1, in ACS, Giustizia, MAP, b.126.
5Testimonianza al processo di Milano del questore di Messina Peruzy, già ispettore di Ps a Palermo, in GDS, 23-24 novembre 1889.
6R.Poma, Onorevole alzatevi!, Firenze 1976, ha descritto i dibattimenti che per mia parte ho seguito nelle cronache del CS, del GDS, dell'«Avanti!» e di altri quotidiani.
7Lettera a Codronchi. 5 dicembre 1899, in BCI, fondo cit.
8Notarbartolo, Memorie cit. p.339.
9 «Avanti!», 18 novembre 1899.
10Relazione del prefetto De Seta del 15 mggio 1900 in ACS, PS, AAGGRR 1879-1903, b.1, fasc. 1/1, p.4, contenente il biglietto del Di Blasi.
11GDS, 3-4 dicembre 1899.
12GDS, 15-16 dicembre 1899.
13GDS, 23-24 novembre 1899.
14S. Sonnino, Diario 1866-1912, a cura di B. F. Brown, Bari 1972, I, p. 428 e anche p.423.
15 «Avanti», 8 dicembre 1899.
16Rastignac [V. Morello], I discorsi del giorno: de malo in pejus, in «La Tribuna», 15 dicembre 1899.
17De Felice, Maffia e delinquenza cit., p.42.
18Lettera al guardasigilli, 14 febbraio 1900, p. 6 in ACS, Giustizia fondo cit. b. 125.
19L'intervento di Sonnino alla Camera del 6 luglio 1896 è in S.M. Ganci, Il commissariato civile per la Sicilia del 1896, Palermo, 1958, pp. 320-40. Un elenco dei governativi all'arrivo di Codronchi in BCI, fondo cit., cat. 15, b. 8182. Sul commissariato civile cfr. la sintesi di Barone, Egemonie urbane cit., pp. 285-94.
20Farini, Diario cit., II, p.908.
21Discorso cit. dell'8 luglio 1896, p.7349.
22Notarbartolo, Memorie cit., p. 333.
23Lettere e appunti in BCI, fondo cit.
24Biglietti senza data in BCI, fondo cit. Quello della sindacatura Amato-Pojero sarà definito dall'inchiesta sul comune del 1900-1901 «uno dei periodi più tristi e disgraziati»: cit. in Cancilia, Palermo cit., p. 205.
25Rispettivamente: De Felice, La responsabilità del governo: i consiglieri della maffia, in «Avanti!», 28 dicembre 1899; Cancilia, Palermo cit., pp. 103-4.
26Farini, Diario cit., II, p.1188.
27Ibid, II, p.908.
28La mafia: sue origini e sue manifestazioni, in GDS, 10-11 dicembre 1899.
29Rapporto Sangiorgi, allegato alla XVI relazione, p.16.
30Le trattative tra Codronchi, Lucchesi e Bertolani in BCI, fondo cit., cat 14, b. 7816 bis. Secondo un Memorandum della parte civile (14 gennaio 1900, pp. 4-5) sarebbe stato Cosenza a convincere il galeotto a evitare riferimenti sul mandante: ACS, Giustizia cit.
31Notarbartolo, Memorie cit., pp. 335-8
32Lettera cit. del 5 ottobre 1899, pp.3-4; nello stesso senso, e nel medesimo fondo, ancora Rudinì a Codronchi il 10 ottobre '99.
33Lettera cit., p.1
34Ivi, p.2.
35Relazione del 15 maggio 1900 cit.,p. 5.
36Cosenza a Gianturco, 1°aprile 1900, cit. p.14.
37Memorandum del 14 gennaio 1900 cit., p.14.
38Notarbartolo, Memorie cit. pp. 351-2.
39Drago, La maffia è necessaria, in Avanti!, 5 dicembre 1899.
40Lettera 8 luglio 1900 in BCI, fondo cit., cat 16, b. 8223. Di G. De Felice cfr. ad esempio L'ex-Viceré Codronchi e la mafia, in Avanti, 9 dicembre 1899.
41In APCD, Discussioni, 1° dicembre 1899, pp. 344 e 383.
42Attorno al processo Notarbartolo, in «Il Tempo», 2 gennaio 1900 e il commento di G. De Felice, Sempre le lettere del generale Mirri in «Avanti!», 4 gennaio 1900.
43La mafia: sue origini cit.
44Documenti del gennaio 1900 in ACS, Giustizia, fondo cit., b.125.
45Relazione 1°marzo 1900 in ACS, fondo cit.
46Il fitto scambio epistolare tra i due, estate-autunno 1900 (già utilizzato da Barone, Egemonie urbane cit., pp. 315-6) in ACS, Giustizia, fondo cit., b.126.
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