Il metodo Falcone
21.05.2013 12:25
Giovanni Falcone si era trasferito a Palermo nell’estate del 1978. Nato nel capoluogo il 20 maggio del 1939, aveva avviato la sua carriera con esperienze come pretore a Lentini, e giudice a Trapani. Venne inizialmente assegnato alla sezione fallimentare del tribunale, ma successivamente all’omicidio del giudice Terranova, avvenuto il 25 settembre del 1979, fu accolta la sua domanda di passare all’ufficio istruzione.
Il responsabile della sezione istruttoria era all’epoca Rocco Chinnici, da tutti definito una sorta di padre tutelare per una intera generazione di magistrati. Chinnici comprende all’istante la stoffa dell’ultimo arrivato, e gli affida il processo Spatola, originato da quella serie di ordini di cattura emessi dal procuratore Gaetano Costa prima di essere ucciso. Oltre ai nomi di alto rango mafioso coinvolti, vi erano elementi che legavano questi al traffico di stupefacenti tra Sicilia e Stati Uniti. Esaminando i filoni d’inchiesta del procedimento Spatola, inizialmente senza accorgersene, Falcone elabora un metodo innovativo per l’istruzione dei processi di mafia. In realtà egli non inventa nulla di nuovo, ma la sua intelligenza lo porterà ad interpretare gli elementi adattandoli ad una nuova visione del fenomeno mafioso.
Ogni porzione d’indagine è solo in apparenza scollegata con l’altra. Compie lo sforzo di applicare una visione d’insieme, supera quella barriera che consentirà di legare vari elementi al medesimo percorso, come ad esempio quando le tracce che da Palermo conducono negli USA, trasferire anche all’estero le diramazioni delle indagini. Si annullano quei confini geografici che costituivano un muro ove s’infrangevano le piste degli inquirenti.
Le tracce da seguire divengono i dollari o il denaro in genere, legati agli affari di Cosa Nostra. Falcone ripeteva di frequente: «La nostra filosofia di giudici palermitani deve essere questa: se l’eroina finisce negli USA, e se questa viene pagata in dollari, a noi non resta che cercare dove finiscano quei dollari. La droga può anche non lasciare tracce, il denaro le lascia sicuramente…».
La nuova frontiera delle indagini si spostò sugli accertamenti bancari, che spesso compievano percorsi tortuosi da e per l’Italia verso l’estero. Inutile dire come tale nuova direzione suscitò un vespaio da parte di quegli istituti di credito abituati a concepire il segreto bancario alla stregua del confessionale per un sacerdote. In molti dovettero adeguarsi al fatto che il segreto bancario si annullava al cospetto dell’autorità giudiziaria. Dall’alto si alzò un coro di voci che intimava a Chinnici di porre un freno ai suoi uomini, perché con la loro attività mettevano in pericolo «quella riservatezza necessaria allo sviluppo economico dell’isola».
Chiunque oggi combatta, si occupi o solo si interessi di lotta alla criminalità organizzata, si è da tempo allineato alla logica di quegli impianti d’inchiesta. E’ normale pensare che quella sia la strada da perseguire per colpire al cuore la mafia, e sembra enunciare concetti scontati quando si parla di indagini coordinate, di piste che portano all’estero, di inseguire le linee internazionali del denaro sporco, o nei circuiti del riciclaggio. Quello che venne ribattezzato il metodo Falcone, costituiva invece per l’epoca un apparato di idee rivoluzionarie, che avrebbe per sempre condizionato la guerra alla criminalità organizzata e non solo mafiosa. La mafia esisteva da oltre un secolo, ma gran parte delle logiche attuali, nascono dall’era di Falcone, Borsellino e del pool. Per affermarli il giudice dovette superare l’ostruzionismo che per primo si manifestò tra molti colleghi.
A chi nel tempo gli chiese una opinione per le difficoltà insorte nel persuadere magistrati anche esperti, ma recalcitranti a condividere i suoi principi investigativi, Falcone rispose con estrema eleganza e signorilità, adducendo e tre ragioni primarie: pigrizia, ricerca e conservazione di un quieto vivere, arretratezza culturale nella comprensione degli automatismi mafiosi. Che le ragioni fossero solo queste?
Forse ne esistevano altre, alcune oscure ma non generalizzabili. Di certo vi era anche una componente di rivalsa individuale, verso una figura che poco dopo il suo arrivo impose la sua voce a chi occupava il ruolo da anni. Un uomo che lavorava instancabilmente, riservato e quindi inattaccabile anche su questo fronte. E furono proprio il suo iper attivismo e il vigore, uniti alla capacità di catalizzare le forze e l’entusiasmo degli altri colleghi che con lui vissero l’esperienza del pool antimafia, ad infrangere barriere impensabili.
Un concetto di lavoro di squadra alla base dei successi, perché come Falcone ripeté in più occasioni, quando un magistrato come un politico, rimane solo ad affrontare al mafia, egli diviene un obbiettivo vulnerabile. Molti colleghi furono uccisi con troppa disinvoltura proprio perché lasciati soli, non in collegamento con gli altri. Non potendo contare sulla protezione della politica, i magistrati compresero che la forza dell’unione poteva partire dall’interno della magistratura stessa, e da lì muoversi per attecchire nelle radici del tessuto sociale, nella speranza di indurre quella metamorfosi culturale attraverso il sostegno della tanta gente onesta di Sicilia.
—————