Il Maxi processo

21.05.2013 12:55

 

Arrivò il 10 febbraio del 1986, ed in un aula bunker affollata da oltre 200 avvocati, alla presenza di giornalisti inviati da ogni angolo del pianeta per seguire da vicino quello che universalmente fu definito «un evento storico», lo Stato italiano portava alla sbarra la Mafia, e per la prima volta con tutte le premesse di infliggergli la più devastante sconfitta della sua storia.

Il luogo che sarà teatro del processo fu eretto a ridosso del carcere dell’Ucciardone, costruito a prova di missile dall’esterno, concepito attraverso rigidi canoni di sicurezza nel trasferimento e la custodia degli imputati dall’esterno alle gabbie, munito dei più sofisticati sistemi informatici del tempo per gestire la mole degli atti processuali. Il colpo d’occhio di questa moderna arena di combattimento di cemento armato era imponente. L’aula era dotata di 30 gabbie per contenere i 208 imputati più pericolosi. Sui 474 rinviati a giudizio però, 119 erano ancora latitanti e tra questi «le bestie» eredi di Luciano Liggio, «U curtu» Totò Riina e «U tratturi» Bernardo Provenzano.

Lo Stato era intenzionato a mostrare tutto il suo impegno nello sferrare agli occhi del mondo, un attacco frontale all’espressione della più ancestrale entità malefica del paese. A rappresentare in aula l’accusa non furono gli uomini che l’avevano istituito. Falcone e Borsellino, insieme a tutto il pool rimase dietro le quinte. In prima linea il giudice Giuseppe Ayala, che si definì una sorta di pioniere perché la sua esperienza in procedimenti di simili dimensioni, non aveva precedenti nazionali.

Tra le gente comune di Sicilia, tali muscolose esibizioni da parte delle istituzioni, non scalfirono un diffuso scetticismo sull’esito del procedimento. In pochi erano convinti che vi sarebbe stata giustizia. Erano i più coloro che ritenevano come in gabbia fossero rinchiusi solo i soldati, mentre i generali godevano di libertà ed i mandanti politici si libravano a quote inarrivabili.

L’effetto delle campagne mediatiche che lo avevano preceduto e la malafede, indussero diversi esponenti politici a rilasciare dichiarazioni pesanti come macigni, arrivando a mettere in discussione persino l’utilità stessa del maxi processo. Si riteneva che in un simile «marasma giudiziario», la vera giustizia sarebbe stata surrogata dalle sue espressioni più narcisiste, per opera di uomini protesi ad un clima giustizialista. Persino il cardinale Pappalardo si rimangiò parte delle affermazioni dei mesi precedenti.

Un passaggio delicato risiedeva nelle deposizioni dei pentiti, vero maglio perforante in mano all’accusa. Sarebbero risultate credibili ed efficaci oltre ogni ragionevole dubbio? E innanzitutto, quale l’effetto sulla corte, sintesi di tutti coloro che liberi da interessi di parte desideravano l’affermazione della verità, avrebbe sortito il teorema Buscetta, e la concezione innovativa di un mafia soggetta ad un'unica cupola?

Occorreva un collettivo balzo culturale e intellettuale nella comprensione del fenomeno mafioso, radicato per la maggiore ad una fisionomia diversa, dove ancora singoli capi e sotto capi gestivano gli affari nelle aree di appartenenza, per unirsi solo in occasioni particolari. Una entità regolata da un codice proprio, frazionata territorialmente ma legata ad un solo vertice e soprattutto connessa da precisi canali alla politica territoriale e nazionale, per soddisfare al bisogno interessi reciproci, costituiva una realtà che diversi intellettuali e storici mal digerivano, specie se siciliani.

Non era insolito imbattersi nel retaggio culturale condizionato da decenni di esperienze, soprattutto nei non più giovanissimi, dove Mafia e Stato erano la stessa cosa. In quei casi, l’annullamento della prima, equivaleva alla perdita di diritti civili propri del secondo.

Falcone e Borsellino soffrirono di tutto questo, ma per fortuna dell’intero paese, in loro rimase ben chiara quale dovesse essere l’atteggiamento da tenere di un vero siciliano per il bene della propria terra.

Il maxi processo si protrasse per 22 mesi fino al dicembre del 1987. Giornate campali si susseguirono ad altre di normale amministrazione. I collegi difensivi orchestrarono, soprattutto nelle prime settimane, ripetuti e fantasiosi tentativi per articolare una ostruzione al processo che ne avrebbe dilatato i tempi a caratteri biblici. Lo stesso fronte artefice dei successi investigativi, fu reattivo, compatto e brillante, e li disinnescò con prontezza ricorrendo ad espedienti altrettanto creativi ma giuridicamente legittimi. Mano a mano, gli avvocati di Cosa Nostra rinunciarono a questi escamotage per la loro manifesta inefficacia.

Tommaso Buscetta fu accolto in aula ed ascoltato in un religioso silenzio, a riprova di un prestigio che aldilà degli sforzi per delegittimarlo, aveva ancora una radicata consistenza nei suoi ex picciotti. I difensori inoltrarono la richiesta per una serie di incontri faccia a faccia, mirati a sbugiardare il boss dei due mondi. L’accusa acconsentì, certa dell’esito a favore di Buscetta di questi match, e così fu: la ventina di confronti in calendario fu sospesa dopo che il primo, con protagonista Pippo Calò, cassiere della mafia, amico di vecchia data di don Tommasino, si concluse con esito disastroso per l’imputato. Calò vide la propria posizione aggravarsi ulteriormente.

Totuccio Contorno invece, nel giorno della deposizione fu subissato al suo ingresso di fischi ed insulti dagli occupanti delle gabbie, ai quali rispose in ugual misura, trasformando quella giornata in una caotica esibizione. Aldilà del diverso contesto coreografico, entrambi i pentiti riuscirono a ribadire con efficacia la loro testimonianza.

Nel corso di uno di quei giorni Buscetta, alla presenza di Falcone ed Ayala, si lasciò andare a inquietanti predizioni qui riportate da questo ultimo: «Voi siete destinati ad essere ammazzati, ma non è detto. Durante il maxi processo non faranno niente del genere per timore della reazione dello Stato, che potrebbe portare ad un inasprimento delle condanne. Dovete guardarvi piuttosto dal mondo istituzionale. Gente come voi li non è ben accetta. Non vi toglieranno la vita, ma faranno di tutto per rendervi innocui con ogni mezzo. Tanti auguri comunque!».

Per parola di Giuseppe Ayala, il maxi processo fu una esperienza indimenticabile sotto ogni profilo, anche dal punto di vista umano. Ancora oggi egli riflette su quale irripetibile convivenza fu costretto un così eterogeneo spaccato della nostra società. Per lunghe giornate imputati, giudici, avvocati, agenti di custodia, carabinieri, addetti alle pulizie e al bar, segretari, cancellieri e giornalisti, divennero abitanti forzati di questa arca giudiziaria. Osservandone comportamenti e reazioni, si acquisiva materiale sufficiente per numerosi testi umanistici. Ma fu imparando a decifrare il codice comportamentale degli imputati che se ne interpretò gerarchie e affiliazioni, acquisendo conferme viventi al lavoro investigativo.

Ayala racconta di come già dalla posizione in prima file nelle gabbie o dal religioso silenzio che si osservava nel corso degli interrogatori, si evinceva chi fosse il capo riconosciuto, chi aldilà di ogni dichiarazione, era il boss temuto e rispettato. Quando uno di questi parlava, gli altri ascoltavano attenti e taciturni. Ogni leader preferiva conferire sempre con i suoi referenti, e ogni affiliato sedeva accanto a membri di famiglie lui vicine. Fu così possibile constatare la parabola discendente dell’ex boss dei Corleonesi Luciano Liggio, in carcere oramai da un decennio: i suoi interventi venivano accolti da una generale indifferenza. Egli rappresentava un passato sì glorioso, ma oramai scavalcato dal presente che portava da tempo i nomi di Totò Riina e Bernardo Provenzano.

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