Il «matto» Leonardo Vitale

21.05.2013 11:51

 


La storia della mafia è soprattutto una lunga sequela di vicende di dolore e afflizioni, che segnano e stravolgono le vite di quegli uomini che con le loro famiglie, vengono colpiti a 360 gradi dalla sua azione violenta fisica e psicologica.

Una di queste racconta di Leonardo Vitale, e narra di un uomo fragile, scosso, emotivamente instabile, che un giorno decise di dare una svolta al suo passato di omicida e affiliato alla mafia, costituendosi alle autorità per esporre la sua storia. Era il 30 marzo del 1973, ed in preda ad una profonda crisi d’identità di carattere religioso, disse che voleva ricominciare una nuova vita. Si accusò di aver commesso 4 omicidi, ma pur essendo un esponente di basso rilievo nella scala gerarchica di Cosa Nostra, elencò i nomi di uno stuolo di affiliati alle famiglie di Palermo e non solo, tra cui Totò Riina, Pippo Calò, Vito Ciancimino e altri ancora, legando questi nomi a fatti, crimini e circostanze. Descrisse per primo i dettagli delle cerimonie di iniziazione alla mafia. Naturalmente questo bastò per attirare l’attenzione immediata di stampa e media. Dal suo racconto emergeva la figura di uno zio che l’aveva risucchiato nella organizzazione, per aiutarlo a fugare turbamenti giovanili di carattere omosessuale: “uccidi un uomo per essere un uomo“, era l’essenza dell’impronta familiare. Non riuscì a superare la prima prova d’ammissione che consisteva nel uccidere un cavallo. Superò la seconda: ammazzò un campiere di nome Mannino. I suoi parenti erano probabilmente eredi di un killer che aveva prestato opera al servizio di Raffaele Palizzolo a fine ‘800.

La sua instabilità emotiva unita alle difficoltà di espressione figlie di una scarsa istruzione, composero un mix che indusse gli psichiatri a dichiararlo in possesso di una memoria attendibile, ma seminfermo di mente. Vitale non fu ritenuto abbastanza credibile e nel 1977, il processo istituito per le sue rivelazioni, portò alla condanna solo sua e dello zio su un totale di 28 imputati. Il contenuto delle sue testimonianze, venne in gran parte confermato anni dopo da Buscetta: oltre alle informazioni già citate, si poneva per la prima volta e in modo esplicito, il marchio mafioso sul delitto del giornalista dell’ “Ora” di Palermo Mauro De Mauro, avvenuto nel 1970. Condannato a 25 anni di prigione, Leonardo Vitale fu scarcerato nel giugno del 1984 dopo una detenzione trascorsa in diversi manicomi giudiziari. Il 2 dicembre dello stesso anno, mentre rientrava dalla funzione domenicale insieme alla mamma e alla sorella, Cosa Nostra venne a saldare il conto in sospeso con un fragile uomo caduto vittima delle sue debolezze e della malvagità di un sistema, nonchè mosso dal desiderio di riconquistarsi una nuova vita libera dalle catene mafiose: Vitale fu assassinato da un uomo non identificato con 2 colpi di pistola al capo.

Quando sul finire del 1985, i giudici Falcone e Borsellino presentarono la documentazione in vista del Maxi Processo, che si sosteneva sul “teorema Buscetta“, aprirono il loro documento narrando la vicenda di Vitale. Quelle pagine terminavano con le seguenti parole: “E’ augurabile che, almeno dopo morto, Vitale trovi il credito che meritava e merita”. 

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