Il fallito «Golpe Borghese»

21.05.2013 12:00

 

Ad anticipare quanto verrà trattato nel prossimo capitolo, a riguardo delle connessioni tra mafia, politica, massoneria e alta finanza, torniamo all’inizio degli anni ’70 per affrontare ancora una pagina oscura e indefinita della storia della nostra repubblica. Stiamo parlando di un fallito colpo di stato risalente alla notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1970 ribattezzato «Golpe Borghese», dal nome di Junio Valerio Borghese figura dell’estrema destra al centro del complotto. Quello che per anni e da più parti, si contribuì a definire come una colorata e inoffensiva adunata di nostalgici di destra, ha assunto grazie alle successive testimonianze di alcuni personaggi coinvolti, i connotati di un vero golpe mancato, anche se rimangono oscure sia le ragioni che lo avevano generato, sia i motivi per cui venne sospeso all’ultimo minuto.

In quella notte, chiamata dai golpisti di «Tora Tora», gruppi di militanti dell'estrema destra si riuniscono in alcuni luoghi della capitale: nel quartiere di Montesacro, nei cantieri del costruttore Remo Orlandini, legato al SID di Vito Miceli; in pieno centro storico, nella sede di Avanguardia nazionale; attorno all'Università; in una palestra non distante dalla stazione Termini. Alle porte di Roma si è concentrata intanto anche una colonna armata di guardie forestali, mentre un gruppo di neofascisti è già penetrato nell'armeria del ministero dell'Interno.

Il quartier generale del Golpe si è sistemato nel quartiere Nomentano. Ne fanno parte: il «principe nero» Junio Valerio Borghese, ex comandante della X Mas, vero capo del complotto; il generale a riposo dell'Aeronautica Giuseppe Casero; il maggiore della polizia Salvatore Pecorella. Il piano prevede, oltre all'occupazione dei ministeri della Difesa e dell'Interno, della sede della RAI (da dove Borghese leggerà un proclama alla nazione), degli impianti telefonici e quelli di telecomunicazione, anche la mobilitazione totale dell'Esercito.

Tutto, insomma è pronto, comprese le liste delle personalità politiche e sindacali da arrestare. 
L'operazione però rientrò all'ultimo momento, quando già il Viminale era stato occupato da diversi uomini, ed erano in marcia le colonne dei cospiratori, non solo a Roma, ma anche nel Lazio, oltre che in Liguria, Umbria e Veneto. Diverse migliaia di persone, tra civili e militari.

La vicenda venne ricostruita dalla Corte D’Assise di Roma in modo assai riduttivo, grazie soprattutto al ruolo svolto dal pm Claudio Vitalone. Si escluse che il piano avesse carattere nazionale. Il golpe venne definito come un atto «iscritto in un disegno lucido» ma «velleitario», nonostante esponenti di Avanguardia Nazionale fossero penetrati, con il consenso dei Carabinieri, fin dentro il ministero degli Interni, impossessandosi di ben 200 mitra. Si evitò di collegare fra loro i diversi progetti eversivi, si pensi alla «Rosa dei Venti», e, soprattutto, si lasciò nel buio più completo il ruolo giocato dai servizi segreti ed i rapporti con le Forze Armate.
Inutile dire che, dopo aver fatto cadere il delitto di insurrezione armata contro lo Stato, le assoluzioni riguardarono la maggior parte degli imputati e le poche condanne comminate (per cospirazione politica e associazione a delinquere) furono assai miti.

La Corte d'Assise d'Appello nel novembre 1984 assolse comunque definitivamente tutti da ogni accusa. Il 24 marzo 1986 la Cassazione confermò definitivamente l'assoluzione generale. Per la giustizia, il golpe Borghese non era mai avvenuto. 
Il «principe nero» non venne mai processato, fuggito in Spagna nel marzo del 1971, quando in seguito all'inchiesta giudiziaria esplose la notizia del tentato golpe, morì nel 1974 in circostanze mai chiarite. Si parlò anche di un suo possibile avvelenamento.

Nuova luce su quei fatti

Un simile episodio avrebbe segnato nel profondo una qualsiasi democrazia in possesso dei requisiti per dichiararsi limpidamente tale, ma in Italia questo non avvenne. Remarono in tanti per relegare nel dimenticatoio della storia, quanto avvenne in quella notte dell’immacolata del ’70, ma tra coloro che con le loro dichiarazioni portarono negli anni a seguire nuova luce su quei fatti, ne citiamo due in particolare: uno dei presunti golpisti, l’ex medico di Rieti Adriano Monti oggi ultra settantenne, intervistato nel 2005 da Giovanni Minoli nel corso di una puntata di «La Storia Siamo Noi» dedicata al fatto; il collaboratore di giustizia Antonino Calderone esponente di spicco della mafia catanese, che arrestato a Nizza nel 1986, iniziò a cooperare con la magistratura l’anno successivo.
 Dal racconto di Monti emerge non solo un preventivo consenso americano all’operazione, ma anche la loro condizione posta per aderirvi: la nomina a capo della futura giunta militare per Giulio Andreotti.
Una rivelazione esplosiva, ma non fantasiosa in assoluto. Fu infatti proprio Giulio Andreotti nel 1974, in veste di ministro della Difesa, ad impegnarsi nella cancellazione dei nomi di alti ufficiali piduisti coinvolti, dai dossier informativi approntati dai Sid per la magistratura.

Nei piani eversivi di quella notte, tra gli altri, era presente il nome di Giovanni Torrisi, successivamente nominato capo di Stato maggiore della Difesa, ma anche dello stesso Licio Gelli, il cui incarico si scoprì consisteva nel rapimento, alla guida di un gruppo di armati, del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat.


Nelle parole di Adriano Monti anche particolari degli incontri in Spagna con Otto Skorzeny, passato alla storia come il «liberatore» al Gran Sasso di Benito Mussolini, il 12 settembre del 1943, ma soprattutto uno degli organizzatori di «Odessa», la rete di salvataggio approntata nel dopoguerra dai criminali nazisti. Venne reclutato, ci dice Monti, dalla CIA come molti altri.
Tra questi altri figura proprio il nome di Junio Valerio Borghese che da documenti degli stessi americani, risulta da loro arruolato già prima della fine del conflitto mondiale. Egli viene subito impiegato in operazioni cosi dette «coperte» e una di queste risulta essere proprio la strage di Portella della Ginestra il 1 maggio del 1947, al fianco dei banditi di Salvatore Giuliano e di altri gruppi mafiosi.

Dopo una lunga militanza nel MSI, dove negli anni ’50 divenne presidente del partito, Borghese fu il coordinatore di numerosi movimenti della destra nazionale, per poi stringere rapporti anche con diversi esponenti della mafia siciliana che pare cercò di coinvolgere nel tentato golpe.

Il ruolo della mafia


Antonino Calderone è ufficialmente un imprenditore catanese, nato nella città etnea il 24 ottobre del 1935. In realtà dal 1962 diviene una delle figure mafiose di maggior rilievo. Nel corso della seconda guerra di mafia, la famiglia Calderone era schierata tra gli sconfitti, avversari nel catanese di Nitto Santapaola, alleato ai corleonesi. Una faida dove il fratello di Antonino, Giuseppe, rappresentante delle famiglie etnee nella cupola, venne assassinato l’8 settembre1978.

Arrestato a Nizza nel 1986, Antonino durante la reclusione fiutò il pericolo e temendo per la propria vita, cercò protezione diventando collaboratore di giustizia a partire dall’aprile del 1987.
Egli spiegò ai giudici le origini della mafia a Catania, il meccanismo che regolava la commissione interprovinciale di Cosa Nostra, snocciolando nomi, date e luoghi che fornirono un riscontro positivo alle dichiarazioni di Tommaso Buscetta e Totuccio Contorno.

Furono ben 166 i mandati di cattura emessi grazie alle sue testimonianze, e all’interno di questa valanga di informazioni, un paragrafo era dedicato proprio al «Golpe Borghese».


Il pentito dichiara: «Mentre Liggio si nascondeva a Catania, ricevette la visita di due capi dello spessore di Salvatore Greco e Tommaso Buscetta dovevano discutere della partecipazione della mafia a un colpo di Stato, il cosiddetto Golpe Borghese. Si trattava di aderire ad un golpe militare che sarebbe partito da Roma e il ruolo della mafia era di partecipare alle operazioni in Sicilia. Al momento stabilito, i mafiosi dovevano accompagnare nelle diverse prefetture della Sicilia, un personaggio che si sarebbe sostituito al prefetto. Il tramite con i golpisti era un mafioso palermitano, un certo Carlo Morana, un tipo un po’ pazzo molto amico di Giuseppe Di Cristina. Si concluse di aderire al colpo di Stato. Mio fratello Giuseppe andò a Roma per incontrare il principe Valerio Borghese. Questi disse a mio fratello che voleva degli uomini per occupare le prefetture siciliane e imporre nuovi prefetti e se qualcuno avesse fatto resistenza lo avrebbero dovuto immediatamente arrestare. Pippo ascoltò pazientemente, ma quando il principe arrivò a parlare degli arresti ebbe un sussulto. Giuseppe replicò scandalizzato che noi mafiosi non ci mettiamo a fare arresti, che cose di polizia non le facciamo, noi non arrestiamo nessuno. Se dobbiamo ammazzare qualcuno va bene, ma servizi di polizia non se ne fanno. Valerio Borghese convenne che gli uomini d’onore non avrebbero fatto arresti, avrebbero appoggiato le azioni di forza necessarie, affiancando i giovani fascisti catanesi, palermitani e di altre città, che già sapevano cosa dovevano fare».



Dalle dichiarazioni di Calderone ma non solo, si evince come il coinvolgimento mafioso nel tentato «Golpe Borghese» fosse ben più che marginale. Da testimonianze di altri pentiti, elementi affiorati indirettamente nel corso di altre indagini e inchieste giornalistiche, emerse nel tempo come la Sicilia di quel periodo sia stata teatro di un intenso formicolio di contatti e incontri tra esponenti di un destra fascista ancora ben attiva, politici, mafiosi, ed emissari più o meno ufficiali di potenze straniere. Dietro alla solita facciata della minaccia comunista da debellare ad ogni costo, gregari, potenti e potenze hanno tramato indisturbate.


Dal dopo guerra in avanti pur con parentesi temporanee, la mafia ha assunto il ruolo di referente autorevole in ogni contesto in cui i grossi centri di potere occulti, insiti nel nostro paese o provenienti dall’esterno, hanno manovrato per condizionare il corso della vita democratica della nostra repubblica, o per il controllo di interessi internazionali. Le peculiarità genetiche dell’onorata società, sommate all’enorme potere economico acquisito con i suoi affari, e alla strategica collocazione geografica dell’isola, l’hanno posta al centro di una serie di episodi per lo più senza una cristallina risposta dalla storia. Pagine che sono arrivate a noi non tanto per l’impegno dello Stato inteso come istituzione nel suo complesso, ma spesso solo grazie al coraggio, al senso di giustizia e alla perseveranza di suoi singoli servitori, di giornalisti o di esponenti di una società civile che hanno combattuto e speso la vita nel desiderio di consegnare a chi verrà un paese dove legalità e trasparenza costituissero capisaldi irremovibili. 
Dall’avvio di questo nostro cammino che ripercorre la storia di Cosa Nostra abbiamo incontrato solo alcuni di questi passaggi, e altri ancora ci attendono.
La stragrande maggioranza dei nomi illustri legati alla vicenda del «Golpe Borghese» che emersero nel tempo , nomi che negli anni continuarono a rivestire incarichi di vertice nelle istituzioni militari e dei servizi segreti, politiche, ed economiche, erano tutti iscritti a quella loggia massonica «P2» di Licio Gelli.

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