Il fallito attentato all'Addaura

21.05.2013 13:06

 

Gli effetti quotidiani dell’opera di normalizzazione che investì l’ufficio istruzioni indagini di Palermo, per mano del suo direttore Antonino Meli, sotto l’egida del CSM e del potere politico, non impedirono al giudice Falcone di proseguire ostinatamente e con profitto nel suo lavoro. Attraverso gli interrogatori di pezzi da novanta del pentitismo, quali Antonino Calderone, Gaspare Mutolo e Francesco Marino Mannoia, il magistrato riempie centinaia di pagine di verbali che gli consentono di spiccare altrettanti mandati di cattura. In collaborazione con il sindaco di New York Rudolph Giuliani inoltre, Falcone aveva coordinato sul finire del 1988 l’operazione “Iron Tower”, che coinvolse le famiglie siculo americane dei Gambino e degli Inzerillo, in un oceanico traffico di stupefacenti.

La cupola mafiosa che in questi anni aveva masticato amaro per i successi del suo nemico numero uno, sceglie che è giunto il momento di forzare la mano. Del resto, gli ultimi eventi in seno al Palazzo di Giustizia di Palermo, avevano creato il presupposto principe alla base di ogni tentativo di eliminazione di un obbiettivo: l’isolamento.

La mattina del 21 giugno 1989, cinquantaquattro candelotti di dinamite vengono rinvenuti sulla scogliera dell'Addaura, una località sulla costa palermitana, dalla scorta del giudice Falcone, a pochi passi dalla villa in cui vive il magistrato. Quel giorno il giudice è in compagnia dei colleghi svizzeri Carla Del Ponte e Claudio Lehmann, con i quali stava lavorando sul riciclaggio dei proventi della Pizza Connection.

L'esplosione non avviene per un difetto dell'innesco. Falcone capisce che quella non è solo mafia: «Qualcuno conosceva il programma di lavoro e i movimenti miei e dei miei colleghi». A Saverio Lodato che lo intervista per «l'Unità» parla di «menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa Nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l’impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che ha spinto qualcuno ad assassinarmi […]. Sto assistendo all’identico meccanismo che portò all’eliminazione del Generale Dalla Chiesa [...]. Il copione è quello. Basta avere occhi per vedere».

L'aspetto più ignobile della vicenda è la voce che il mancato botto fa diffondere in certi ambienti: «La bomba se l'è messa da solo, così fa carriera».

A dare credito a questa assurdità, pur sconfessata da una perizia, sono anche tre autorevoli testimonianze. Una è quella di Domenico Sica, capo dell'alto commissariato antimafia; la seconda è di Francesco Misiani, magistrato della stessa istituzione; la terza è di Mario Mori, ufficiale del Ros. I tre affermano che si tratterebbe di un'intimidazione e non di una tentata strage, perché l'ordigno non poteva esplodere. Ma è una sciocchezza come afferma una sentenza della Corte di Cassazione:

«Resta il dato sconcertante costituito dalla circostanza che autorevoli persoaggi pubblici investiti di alte cariche e di elevate responsabilità, si siano lasciati andare a così imprudenti dichiarazioni le quali hanno finito per contribuire a fornire lo spunto di molteplici nemici e detrattori del giudice di inventare la tesi di delegittimante del falso o simulato attentato, avendo i vertici di Cosa Nostra addirittura impartito l'ordine agli uomini dell'organizzazione di divulgare la falsa e calunniosa notizia che l'attentato «se l'era fatto da solo».

Il maresciallo dei carabinieri che compie la perizia sull'esplosivo commette una serie di falsi materiali che pregiudicano le indagini. Per questo viene condannato in via definitiva da una sentenza. Poi, come se nula fosse accaduto, torna al proprio mestiere ed entra nel Ros.

Il boss Nino Madonia, uno dei mandanti dell'attentato all'Addaura, utilizza quelle tre «autorevoli testimonianze» per difendersi e sostenere che sarebbe mancata la volontà di «fare del male al giudice». Aggiungendo poi che l'episodio non è riconducibile alla mafia, bensì ad ambienti istituzionali e dei servizi segreti: «un complotto contro il dottor Falcone», lo definisce.

Una difesa sospetta, quella di Madonia, che nell'estate del 2009 sarà «copiata» da Salvatore Riina per un'altra circostanza: «Con la strage di via D'Amelio io non c'entro – sosterrà lo zu Totò – Quella è roba di servizi segreti».

Tra il 1989 e il 1990 arriva fino alla cella del mafioso Francesco Di Carlo, detenuto in un carcere londinese in attesa di essere estradato, il quale racconta di aver ricevuto due visite – a distanza di circa sei mesi l'una dall'altra e in epoca successiva al fallito attentato dell'Addaura – nel penitenziario di Full Sutton, da parte di soggetti appartenenti ai servizi segreti, italiani e stranieri, interessati all'eliminazione del giudice Falcone.

«A chi ti rivolgeresti?» gli avevano chiesto. «A Nino Gioè», aveva risposto il «consulente». Un consiglio seguito alla lettera, dal momento che Gioè, insieme a Pietro Rampulla, sarà l'organizzatore materiale della strage di Capaci.

I sospetti che Gioè fosse legato ai servizi segreti di sicurezza sono davvero tanti. Lo stesso Di Carlo lo segnala alla fine dell'89 agli 007 che lo vanno a trovare a Full Sutton.

«Mi dissero che in Italia – dichiarerà in seguito ai magistrati – c'era chi lavorava a togliere di mezzo Falcone e chiedevano un aiuto. Io gli indicai mio cugino Nino Gioè. Poi so che si sono incontrati. Lui [Gioè] mi disse: «Hanno mezza Italia nelle mani, possiamo fare tante cose». Io avevo avuto per amico un generale che comandava i servizi segreti [il generale Santovito] a Roma. Era una persona per bene, però era il capo dei servizi segreti. Perciò capivo un po' di servizi e quello che c'era sotto. E allora mio cugino cercavo di guidarlo: «Si, fanno favori, però vedi che al minuto opportuno scaricano, stai attento sempre». L'unica cosa che potevo dire era questa. Non lo so se si era poi esposto tanto, perchè l'ultima volta che l'ho sentito Nino era molto preoccupato. Poi l'hanno arrestato e ha fatto la fine che ha fatto».

Nei mesi prima del 1990 Di Carlo riceve in carcere un'altra visita. Lo conducono in una stanza piena di persone. Qualcuno parla italiano con l'accento inglese. Gli chiedono informazioni sul caso Calvi e lo minacciano. Di Carlo stavolta non dice nulla agli 007, ma l'incontro lo preoccupa, tanto che scrive una lettera al cugino Gioè perché riferisca l'accaduto a Riina. Riceve poi rassicurazione che il capo di Cosa Nostra si sarebbe occupato personalmente della faccenda.

Come abbiamo visto, Nino Gioè si suicida in carcere il 29 luglio 1993, rivelando i propri contatti con Paolo Bellini in una lettera d'addio. «Io sono la fine di tutto», scrive in quella lettera. Fu un vero suicidio – si domanda il pm Luca Tescaroli nella requisitoria – o una morte procurata per impedire una collaborazione con possibili effetti destabilizzanti su apparati deviati dello Stato?

Per l'Addaura sono stati condannati Salvatore Riina, Nino Madonia e Salvatore Biondino come mandanti. Francesco Onorato e Giovan Battista Ferrante – entrambi collaboratori di giustizia – tra gli esecutori. Solo nel 2006 anche Vincenzo e Angelo Galatolo, mafiosi di spicco della famiglia dell'Acquasanta, saranno condannati per aver avuto un ruolo nella vicenda.

Madonia però lo dice chiaro: «l'Addaura è roba di servizi segreti». Secondo le sentenze, c'è qualcosa di vero in questa affermazione. Le nuove indagini in corso hanno fra l'altro evidenziato che, poche settimane prima del fallito attentato, l'imprenditore Oliviero Tognoli, riciclatore di denaro sporco per conto della mafia, avrebbe riferito a Falcone e alla Della Ponte che Bruno Contrada, alto esponente dei servizi e già capo della squadra mobile di Palermo, lo avrebbe avvisato del suo prossimo arresto consentendogli la fuga. Il magistrato svizzero ha sostenuto che uno degli obiettivi dell'attentato sarebbe quello di impedire che venissero formalizzate le accuse contro Contrada da parte di Tognoli,

«Per salvarmi la vita devo conoscere i miei nemici politici», confida Falcone al suo amico e collega Mario Almerighi.

Nel 1997 Giovanni Brusca affermerà di aver incontrato Salvatore Riina pochi giorni dopo l'Addaura. Il capo dei capi gli aveva espresso il proprio disappunto per l'insuccesso dell'operazione, in quanto si era perso «il momento giusto»: il giudice in quel periodo era oggetto di critiche delegittimanti provenienti da una parte dell'ambiente giudiziario, per cui si poteva attribuire la responsabilità dell'attentato a personaggi non riconducibili alla mafia.

Mascariare, si dice nel gergo mafioso: sporcare la futura vittima, isolarla agli occhi dell'opinione pubblica. Poi eliminarla fisicamente.

Le critiche delegittimanti nei confronti di Falcone si manifestano attraverso le lettere del «Corvo di Palermo», che nell'estate incandescente del 1989 mandano definitivamente in pezzi ciò che resta del pool antimafia.

Nelle stesse ore in cui bombaroli mafiosi preparano l'esplosivo per l'Addaura, altre mani inviano alcune missive anonime. Sono dirette al Csm, al presidente della Repubblica, all'Alto commissariato antimafia, ad alcuni leader politici: accusano Falcone e il poliziotto Gianni De Gennaro di manipolare i pentiti e di aver addirittura consentito a Totuccio Contorno, un collaboratore di primo piano, di tornare a Palermo, per assassinare i nemici della propria famiglia. «Killer di Stato», lo definisce il Corvo.

Il linguaggio è quello di uno addetto ai lavori, forse un magistrato o un alto dirigente della polizia. L'obiettivo e delegittimare Falcone alla vigilia della nomina a procuratore aggiunto. «L'attentato doveva servire a dare credito alle lettere – dice lo stesso magistrato. - Sarei stato un giudice delegittimato perché scorretto, il mio omicidio sarebbe stato giudicato quasi normale». Un giudice delegittimato. Mascariato, appunto.

A finire indagato per un sola di quelle lettere è un collega di Falcone, il pm Alberto Da Pisa, processato e condannato in primo grado perché un'impronta rinvenuta su una missiva corrisponde in molti punti con la sua. In appello viene però assolto, in quanto la prova è giustificata inutilizzabile per via dell'imperizia di chi l'ha raccolta.

Il pensiero del Corvo su Falcone, bisogna ammetterlo, non è così lontano da quello del tutto legittimo dell'assolto Alberto Da Pisa: «Disapprovo la gestione dei pentiti – dichiara il 21 settembre del 1989 durante l'audizione del Csm – e i metodi d'indagine inopinatamente adottati nell'ambiente giudiziario palermitano […] Falcone prese contatti e impegni con le autorità americane a titolo non si sa bene come, concernenti provvedimenti di competenza della corte d'appello. Emerge la figura del giudice «planetario» che si occupa di tutto e di tutti, invade le competenze, ascolta i pentiti e non trasmette gli atti alla procura […] indaga al di là di quello che è il processo. Una gestione dei pentiti familiare e gravemente scorretta, per non usare aggettivi più pesanti[...]. Falcone portava i cannoli a Buscetta e Contorno, un rapporto confidenziale, una logica distorta tra inquirente e mafioso».

Chi sia realmente il Corvo di Palermo, nome che nasconde in realtà un'entità collettiva, rimane uno dei tanti misteri. Certo non è immaginabile che un semianalfabeta come Totò Riina o qualcuno dei suoi complici abbia potuto scrivere quelle lettere dense di informazioni riservate e stilate con un linguaggio tecnico.

Luca Tescaroli, che da pubblico ministero ha fatto condannare per la strage di Capaci l'intera cupola mafiosa, sottolinea che le anomalie investigative e le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia sul fallito attentato dell'Addaura appaiono idonee a corroborare l'ipotesi di ulteriori forme di concorso nel reato da parte dei soggetti appartenenti ad entità portatrici di interessi convergenti a quelli, preminenti, di Cosa Nostra.

Nello stesso periodo, Luigi Ilardo, raccoglie in carcere la versione di alcuni mafiosi. Il dottor Di Pisa non c'entra nulla – spiegherà poi a Michele Riccio – è stata tutta una strumentalizzazione perché era uno dei magistrati che faceva capo al pool antimafia e che cercava determinate garanzie prima di fare qualche cosa e non condivideva i modi degli altri colleghi. Per metterlo fuori gioco lo hanno incastrato […]. Mi hanno raccontato che a Palermo c'era un intreccio che voleva arrivare a tutti i costi a determinare situazioni di potere. E non guardavano in faccia nessuno, avevano anche l'appoggio di determinato organi dello Stato, quali i servizi segreti.

Di Pisa dunque non c'entra, dice Ilardo. E le indagini sul Corvo, chissà perché, non sono mai state in mano alla magistratura, ma all'Alto commissariato antimafia e al Sismi. Di Pisa vittima sacrificale perfetta, dunque? Perché fiero e dichiarato avversario di Falcone?

La vicenda produce uno scontro senza precedenti all'interno del Palazzo di Giustizia palermitano, che da quel momento diventa «il Palazzo dei veleni». L'intera magistratura di Palermo ne esce con le ossa rotte, Falcone per primo.

So che a Palermo c'era qualcuno che apparteneva a uffici di polizia – continua Ilardo – con compiti particolari, di coordinamento dei servizi segreti, che dava appoggio e copertura ai latitanti. Il riferimento è a Bruno Contrada, il dirigente di polizia processato e condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. «L'uomo dei misteri», così lo definisce l'infiltrato.

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