Il «crack» di Michele Sindona

21.05.2013 12:02

 

Un altro grande ramo delle inchieste di Falcone sul finire degli anni ‘70, sul quale lavorò a stretto contatto con la Procura di Milano, riguardava l’intreccio tra politica, economia e mafia che coinvolgeva personalità del paese talmente di spicco, da sospettare conseguenze in grado di minacciare le istituzioni democratiche.

Figura centrale della vicenda era Michele Sindona, nativo di Patti (Messina), che negli anni sessanta si distinse come uno dei banchieri più irruenti del panorama finanziario mondiale. Sindona fu molto di più che un semplice squalo della finanza, perché riuscì a costruirsi un impero annodando tra loro gli intricati fili del potere politico (DC), della Massoneria, del Vaticano e della mafia.

All’apice della sua carriera, il banchiere siciliano controllava un impressionante numero di istituti bancari e svariati soggetti dell'élite del mondo finanziario, nonché circa la metà dei titoli quotati a Piazza Affari. Il suo raggio d’azione spaziava dalla gestione degli investimenti esteri del Vaticano (Banca dello IOR), al finanziamento dei più potenti personaggi politici della DC (per una cifra complessiva stimata sui 2 miliardi di lire del tempo).

Quando nel 1974, il suo impero vacilla a causa del fallimento di una delle banche più grandi degli Stai Uniti (la Franklin National Bank di Long Island) da lui diretta, il governo americano lo accusa di bancarotta. Nel 1979, per sfuggire alla giustizia statunitense, si rifugia in Sicilia ove vi rimane per circa 3 mesi. Una fuga che si condirà di mistero, perché fu inscenato un falso rapimento di Sindona da parte di un sedicente e sconosciuto gruppo terroristico di sinistra («Comitato Proletario Eversivo per una Vita Migliore»).

Con l’aiuto dell'élite mafiosa dei due mondi Inzerillo-Gambino-Spatola-Bontate, pare organizzò il suo finto sequestro per estorcere al potere politico italiano un aiuto nel salvataggio del suo agonizzante impero economico, regno che conteneva cospicui guadagni anche di Cosa Nostra. Nonostante la messa in scena venne arricchita da un reale colpo di pistola sparato alla coscia sinistra di Sindona probabilmente sotto anestesia, il piano fallì.

Pressato anche dalla Giustizia italiana che accusò il faccendiere quale mandante dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli (avvenuto secondo i giudici per mano di un killer legato alla mafia), liquidatore di uno dei suoi istituti in fallimento, Sindona fu «liberato» dai suoi sequestratori e ricomparve negli Stati Uniti per consegnarsi all’FBI.

Questa versione dei fatti venne sempre contestata dal banchiere, che si dichiarò vittima di un complotto, ma fu soprattutto la linea del potere politico a rendere torbida una vicenda sulla quale non venne mai fatta completa luce. 
Significativo fu il contenuto della richiesta di condanna per mano del Pubblico Ministero Guido Viola, che nella requisitoria di 221 pagine in cui si accusa Sindona di essere il mandante dell’omicidio Ambrosoli scrisse: «È una storia di intrighi, di minacce, di estorsioni, di violenze, di intimidazioni, di collusioni con ambienti politici, massonici e mafiosi. Ne scaturisce uno spaccato estremamente inquietante della realtà italiana su cui occorrerebbe attentamente meditare. Di fronte agli sforzi e alle difficoltà di quanti erano impegnati a ricercare la verità per assicurare alla giustizia i responsabili di gravi reati, si sono sviluppate spesso manovre occulte, subdole, losche, a volte impalpabili. Finanzieri senza scrupoli, avventurieri della peggiore risma, faccendieri, magistrati poco corretti, mafiosi, esponenti massonici, delinquenti comuni, tutti spinti dalla potenza del denaro e dal germe della corruzione, si sono mossi freneticamente sullo sfondo di questa vicenda».

Ma quel che è ancora più grave è il ruolo forse esercitato o solo promesso, nel perfezionamento del piano di salvataggio di Sindona, da taluni esponenti politici di primo piano. Grazie al lavoro svolto da «padrini illustri», Sindona aveva il diritto di sentirsi protetto e sicuro dell’impunità. Un onesto servitore della giustizia, Ambrosoli, fu lasciato solo, l’unico che con Mario Sarcinelli seppe dire di no ad un piano di salvataggio scandaloso. In un modo o nell’altro entrambi avrebbero pagato con la loro onesta fermezza: l’uno con la vita, l’altro con il coinvolgimento in una allucinante vicenda giudiziaria .


I padrini a cui si fa riferimento portavano in primis i nomi di Giulio Andreotti e Licio Gelli, gran maestro della P2.
Michele Sindona venne condannato ed estradato in Italia e poi rinchiuso nel super carcere di Voghera. Il 20 marzo 1986 dopo aver consumato del caffè dal suo contenitore, cadde sul pavimento della cella in cui era detenuto. Le sue ultime parole sussurrate ai primi soccorritori furono «Mi hanno avvelenato!». Nei residui di caffè vennero rinvenute consistenti tracce di cianuro, ma resistettero nel tempo le voci di chi sosteneva che Sindona si fosse suicidato. 
Il banchiere di Patti morì dopo oltre 2 giorni di agonia.
Prigioniero vero o presunto, come suicida o assassinato, quei mesi trascorsi in Sicilia celano accordi tra mafia, massoneria e politica in grado di condizionare gli eventi degli anni a seguire, dai delitti politici degli anni ’80, alle stragi mafiose degli anni ’90, fino alle connessioni tra finanza, Cosa Nostra e potere politico che gravano ancora oggi.

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