I fasci siciliani.

18.05.2013 11:09

 

Oltre cento anni fa (nel 1893) nelle campagne e nelle città di Sicilia, contadini, artigiani, intellettuali, ma soprattutto donne e uomini di ogni età, cominciarono ad unirsi nei Fasci dei Lavoratori, nel tentativo di sconfiggere la rassegnazione, di sfidare la mafia dei gabelloti ed il potere dello Stato che affamava la povera gente lavoratrice. Era un sogno di giustizia e di libertà che mirava a costruire, con la lotta giorno dopo giorno, il progetto di una società migliore. Fra coloro che aderirono ai Fasci dei Lavoratori, si distinsero le donne che aspiravano alla conquista, attraverso la solidarietà e la partecipazione, del benessere sociale. Tentavano di recuperare valori morali e sociali in grado di proporre alla collettività un senso nuovo della dignità umana.

I Fasci siciliani furono tragicamente repressi dai mafiosi locali e dal governo nazionale. Si contarono più di cento morti, diverse centinaia i feriti e oltre tremila cinquecento rinchiusi nelle patrie galere. Per comprendere perché i fasci ebbero una tale diffusione nei centri rurali basta considerare le condizioni in cui versava, a trent'anni di distanza dalla forzata Unità, la classe contadina. In Sicilia giunse in ritardo, anche rispetto al Mezzogiorno continentale, la promulgazione delle leggi eversive della feudalità e, quando giunsero, queste leggi non vennero applicate per molto tempo. Benché i feudi fossero stati trasformati in allodi, cioè in proprietà private, non ci fu la formazione di una classe di piccoli e medi proprietari. Le terre vendute dai baroni in dissesto finanziario finirono per ingrandire ulteriormente i latifondi di altri ex-feudatari e di gabelloti arricchiti. Il latifondo, quindi, continuava a caratterizzare l'agricoltura e la struttura sociale siciliane. Inoltre, le condizioni dei contadini erano peggiorate per la perdita, in seguito alla eversione della feudalità, dei diritti comuni e degli usi civici.

La situazione non mutò, anzi s'è possibile, peggiorò dopo la forzata unità d'Italia: Infatti, "la censuazione dei demani pubblici e dei beni ex-ecclesiastici non intaccò minimamente il latifondo"1, al contrario, contribuì a rafforzarlo poiché i terreni, concessi in enfiteusi o venduti, furono in massima parte accaparrati dai grandi proprietari terrieri e dai gabelloti. Chi erano i gabelloti? Questa figura era nata nel corso del XIX secolo, in seguito alla tendenza dell'aristocrazia siciliana di trasferirsi nella città di Palermo, cedendo le terre dell'interno, dietro pagamento di una gabella, a degli affittuari che vennero, per questo, chiamati gabelloti. Il mercato delle gabelle, nella Sicilia centro-occidentale, era in gran parte controllato e gestito, da organizzazioni mafiose e molti gabelloti, erano affiliati a queste organizzazioni, così come lo erano i "soprastanti", uomini di fiducia dei gabelloti, ed i "campieri", i quali costituivano una sorta di polizia privata del feudo. I gabelloti, a loro volta, subaffittavano le terre ai contadini, ad un canone di gran lunga superiore alla gabella che erano tenuti a pagare ai proprietari. Essi speculavano sullo stato di bisogno dei "villani"; inoltre, spalleggiati dai campieri e dai soprastanti, ricorrevano alla violenza per tenere assoggettati i contadini e per far desistere i proprietari da eventuali aumenti degli affitti. Fu con questi sistemi che i gabelloti riuscirono ad accumulare il denaro che permise loro di acquistare le terre degli ex-feudatari e di partecipare alle aste dei beni ecclesiastici, impedendo di fatto la redistribuzione delle terre. Il gabelloto, divenuto latifondista, si faceva riconoscere dalla monarchia borbonica prima e sabauda dopo, un titolo nobiliare, di solito quello di barone; chi non ci riusciva si contentava di quello di galantuomo, con diritto al voto. Trent'anni dopo l'Unità d'Italia, e cioè nel periodo in cui cominciarono a sorgere i primi Fasci dei lavoratori, i rapporti sociali e di lavoro nel latifondo erano ancora basati sulle seguenti classi: i grandi proprietari terrieri; i gabelloti; i borghesi; i coloni; ed i giornalieri agricoli. I borghesi erano i piccoli e medi proprietari, cioè coloro che, in qualche modo, erano riusciti ad acquistare qualche ettaro di terra, in seguito al processo di vendita dei beni della Chiesa. Le condizioni dei borghesi erano difficili per via delle numerose tasse che li costringeva a ricorrere a prestiti usurari. I piccoli proprietari finivano pertanto col prendere a mezzadria altri terreni ed a dipendere, anch'essi, dall'economia del latifondo. La maggior parte dei grandi proprietari, come abbiamo già detto, preferiva cedere la propria terra, ai gabelloti. Costoro la subaffittavano ai coloni, sottoponendoli a contratti iniqui ed angarici. I patti colonici più diffusi, alla fine dell'Ottocento, nella Sicilia del latifondo erano la mezzadria, o metaterìa, ed il terratico. Con la mezzadria il proprietario o il gabelloto metteva a disposizione del colono la terra e anticipava le sementi, mentre il colono era tenuto a fare tutti i lavori necessari per la produzione; il raccolto veniva ripartito con vari sistemi. Nonostante le diverse varianti, alla base del contratto di mezzadria c'era sempre lo sfruttamento del colono da parte del proprietario o, più spesso, del gabelloto. Il contadino dell'interno, e in modo particolare il mezzadro che usava i suoi muli e la sua attrezzatura per lavorare la terra, era infatti indebitato in permanenza col gabelloto. Inoltre il contratto era verbale, cosa che dava adito ad abusi da parte del gabelloto. Della sua quota, il mezzadro doveva cederne una parte che il gabelloto distribuiva tra i campieri. Questi donativi erano in realtà tributi che il contadino pagava in cambio di protezione. Il terratico era, per il contadino, ancora più pesante e svantaggioso di quello di mezzadria. Mentre in quest'ultimo contratto il compenso dovuto al proprietario era proporzionato al raccolto, nel terratico il colono doveva corrispondere al proprietario una quota fissa, in denaro o in natura, indipendentemente dalla buona riuscita del raccolto; bastava, quindi, una cattiva annata per costringere il terratichiere a ricorrere all'usuraio o a vendere quel poco di cui disponeva. Il terratico fu imposto sempre più diffusamente nel corso del XIX secolo, in seguito alla liberalizzazione della proprietà dai vincoli feudali, e all'instaurarsi di una certa concorrenza tra i nuovi proprietari o tra i nuovi possessori. Costoro, approfittando delle condizioni sempre più misere dei contadini, i quali erano stati privati anche degli usi civici, riuscirono ad imporre loro questo contratto capestro. Una delle rivendicazioni principali dei Fasci sarà proprio la sostituzione del terratico con la mezzadria. Infine c'erano i braccianti, la classe la più numerosa dei contadini siciliani, i più poveri che non possedevano nulla e venivano impiegati nei periodi dell'anno dedicati alla semina ed alla raccolta del grano. i salari erano bassissimi in quanto, a causa del sistema della gabella e del subaffitto, spesso coloro che li pagavano erano anch'essi poveri: anche il metatiere faceva il bracciante quando non aveva lavoro nel suo campo. Nei periodi di lavoro, i braccianti si offrivano, tutte le mattine, sulle piazze dei loro paesi, sperando di essere ingaggiati dai campieri o dai sovrastanti dei feudi.

Alla base della attiva partecipazione dei braccianti al movimento dei fasci, vi era quindi l'aspirazione alla terra e quella di vedere aumentate le loro misere paghe. Questa era quindi la situazione della Sicilia del latifondo, quella soprattutto centro-occidentale, al tempo dei Fasci. I primi Fasci Siciliani nacquero nella Sicilia orientale, a Messina e a Catania, ed erano essenzialmente di carattere urbano; anche l'attività del fascio di Palermo, d'altronde, nei primi mesi non riguardava che gli operai della città. Inoltre, accanto a questi ultimi ed ai contadini (coloni e braccianti) e borghesi del latifondo, troviamo nei fasci gli zolfatari, cioè coloro che lavoravano nelle miniere di zolfo (nelle province di Caltanissetta e di Agrigento), ed i braccianti, delle zone costiere. La Sicilia orientale si trovava in una situazione economica migliore rispetto alla Sicilia centro-occidentale. Questa differenza era dovuta ad una maggiore divisione della proprietà terriera, e ad una più larga diffusione di aree a coltura intensiva, quali agrumeti, vigneti e uliveti. Anche nella Sicilia orientale, comunque, vi erano dei latifondi e, con questi, le figure tipiche che li caratterizzavano:

La condizione operaia nelle principali città siciliane (Palermo, Catania e Messina) non era delle migliori. L'industria siciliana, sorta nei primi anni dell'Ottocento, alla fine del secolo era già in fase di esaurimento, in quanto, dopo l'Unità d'Italia, si trovò a dover concorrere con la fiorente industria settentrionale. A Palermo, nella seconda metà dell'Ottocento e nei primi quindici anni del Novecento c'erano i Florio che, come dice Massimo Ganci, erano l'unico esempio di grande borghesia industriale nella provincia di Palermo. Il loro potere economico si rivelò soprattutto nel campo enologico e dell'armamento navale (nel 1881, insieme ai Rubbattino di Genova, fondarono la "Navigazione Generale Italiana", la maggiore società armatoriale italiana). Ai Florio si deve anche la fondazione della fonderia Orotea e, nel 1896, del Cantiere Navale. Nell'ultimo decennio del XIX secolo, per quanto riguarda l'industria pesante, oltre a quelle dei Florio troviamo soltanto uno stabilimento meccanico e quello del gas. L'industria leggera si basava soprattutto sulla lavorazione dei prodotti alimentari, poco sviluppata e più simile all'artigianato che ad un'industria vera e propria. A Catania vi erano gli unici impianti di raffinazione e ventilazione dello zolfo. L'economia di Messina si basava invece sui traffici marittimi. Le attività portuali davano lavoro a un alto numero di operai e ad esse era legata la piccola industria. Nella città erano presenti numerose fabbriche per la produzione di vini, derivati di agrumi, pelli, pesce conservato e tessuti di seta. La produzione della seta, un tempo floridissima, alla fine dell'Ottocento era in decadenza. Complessivamente il potenziale industriale dell'Isola era basso e incapace di contrastare la concorrenza dell'industria settentrionale. Questa situazione influiva, chiaramente, sulla condizione degli operai, i quali, più che costituire una moderna classe sociale costituivano un ceto. Riguardo gli zolfatari, la loro situazione era simile da quella dei contadini del latifondo, anch'essi erano sfruttati, per lo più, da gabelloti mafiosi. I gabelloti delle miniere, al pari di quelli agrari, prendevano in affitto le miniere dai proprietari e sfruttavano il più possibile i "picconieri" e i "carusi". I "picconieri" estraevano il minerale di zolfo e venivano pagati a cottimo. I "carusi" erano ragazzi dai nove ai quindici anni che avevano il compito di trasportare, a spalla, il carico di minerale estratto fino all'imbocco della miniera, dove il picconiere, per contratto, doveva consegnare lo zolfo al gabelloto.

Nelle campagne siciliane, prima dei fasci, vi erano state delle importanti esperienze associative, anche se non inserite in un quadro evolutivo, e non sostenute da un movimento di massa. Si trattava di una sorta di cooperative in cui un certo numero di contadini riunivano i loro mezzi per poter prendere in affitto un latifondo, per poi suddividerlo tra loro in proporzione dei mezzi di ognuno. Spesso questi sodalizi finivano male per prevaricazioni interne e la mafia ne approfittava per accrescere il suo potere. Tra i contadini siciliani non mancava, pertanto, lo spirito di associazione mancavano però l'istruzione e la capacità di gestione. Prima dei fasci vi erano state infatti molte manifestazioni di protesta, prive però di qualsiasi forma di organizzazione. Tutto questo, come sottolinea lo storico Francesco Renda, dimostra che fu soltanto con il movimento dei fasci siciliani che si realizzò, finalmente, l'unione tra la protesta generale, la lotta di massa e l'organizzazione. I fasci rurali cominciarono a sorgere con un ritmo travolgente soprattutto dal gennaio 1893, dopo la strage di Caltavaturo. Questo tragico avvenimento in verità fu soltanto il catalizzatore della reazione dei contadini. Le vere ragioni del dilagare dei fasci rurali vanno piuttosto ricercate nelle sempre più indigenti condizioni di vita delle masse popolari. Alle storiche cause di sofferenza e di malcontento si erano aggiunte infatti, dalla metà degli anni '80, gli effetti della crisi agraria causata, come abbiamo già detto, dalla forte concorrenza dei prodotti agricoli americani. In Sicilia il primo mercato a subirne le conseguenze fu quello del grano che subì un consistente calo di prezzo. Il Governo italiano cercò di arginare la crisi economica introducendo nuove tariffe doganali, tra le quali fu compreso un dazio protettivo del grano. Ciò scatenò la guerra commerciale con la Francia che bloccò l'importazione di vino. Alla crisi del grano si aggiunse così quella del vino, ed inoltre si aggiunse la fillossera che distrusse i vigneti. Altro settore agricolo siciliano piegato dalla crisi fu quello degli agrumi, il quale risentì sia della concorrenza d'oltreoceano sia della guerra di tariffe con la Francia. In questo settore la crisi fu ancora più dura poiché, nel periodo precedente, vi era stata una corsa all'affitto delle terre coltivabili ad agrumi, per via della maggiore esportabilità e questo aveva causato un aumento esagerato dei fitti delle terre e della produzione agrumaria. I coltivatori non avevano più come pagare i debiti. Al solito i grandi proprietari latifondisti, non risentirono gravemente della recessione economica, anche perché aiutati, notevolmente, dall'introduzione del dazio sul grano mentre i gabelloti, si ritrovarono a pagare fitti alti. Su chi scaricarne il peso? Sui contadini, naturalmente rendendo ancora più gravosi i patti agrari allora in vigore, e diminuendo le già misere paghe dei giornalieri. Conseguenza diretta della crisi, fu, pertanto, un'ulteriore accentuazione della lotta di classe: da un lato i grandi proprietari latifondisti, i quali videro aumentare il peso della rendita fondiaria e vennero protetti dal Governo; dall'altro i contadini, sui quali pesava interamente il prezzo della crisi, in mezzo c'erano i gabelloti. Fu soprattutto contro questi ultimi che, nel 1893, i contadini si organizzarono per manifestare la loro protesta e la loro rabbia. Erano proprio i gabelloti i più diretti, e visibili, responsabili delle loro tristi condizioni: i grandi latifondisti se ne stavano ben lontani.

Dopo l'abbandono da parte del partito socialista , il movimento dei Fasci siciliani cominciò a perdere compattezza e lucidità. Le prime agitazioni che i dirigenti dei fasci non riuscirono a controllare furono quelle contro le ingiuste e opprimenti imposte comunali. Queste lotte si svilupparono in maniera massiccia e tumultuosa al termine dello sciopero agrario, in seguito all'entusiasmo da questo suscitato. Ad essere colpiti dalle esose tasse comunali non erano solo i contadini ma tutti i ceti ad esclusione delle classi abbienti, che ancora, con l'eccezione di qualche comune ove la lista socialista aveva vinto le elezioni amministrative di luglio, dirigevano le amministrazioni comunali, e lo facevano a proprio esclusivo vantaggio. La tassa comunale sul bestiame, ad esempio ed è solo UN esempio, veniva in gran parte a pesare sui ceti più umili, poiché l'importo che doveva pagare chi possedeva bestie da tiro e da soma, gli animali da lavoro del contadino, era maggiore rispetto a quello che era tenuto a pagare chi possedeva vacche e buoi o cavalli da corsa , cioè i ricchi proprietari. Ma ad angariare piccoli proprietari, artigiani, contadini e lavoratori in genere, erano soprattutto le imposte indirette, che in Sicilia avevano un gettito nettamente superiore a quello delle imposte dirette. Tra le prime, l'aggravio che più di tutti opprimeva ed esasperava il popolo, era senz'altro il famoso "dazio consumo": nei comuni aperti si poteva fare entrare liberamente la merce ed il dazio si pagava al momento della vendita al minuto, ricadendo di conseguenza esclusivamente sui consumatori; nei comuni chiusi il dazio si applicava invece su tutte le merci che entravano in paese, cosicché tutti pagavano lo stesso importo ma, i commercianti, potevano rifarsi sul consumatore al momento della vendita. In ogni caso, erano i ceti più poveri a sopportarne il peso. In più i cittadini non ricevevano, come contropartita delle gravose tasse pagate, i servizi pubblici cui avevano diritto, poiché alla "servitù economica" si aggiungeva la "servitù amministrativa In base alla riforma elettorale del 24 settembre 1882, infatti, il diritto di voto era riconosciuto a coloro i quali pagassero una data somma di imposta diretta o sapessero leggere e scrivere. Questa legge consegnò le amministrazioni comunali in mano al "ceto civile", cioè a quel ceto di piccolo-borghesi di cui facevano parte anche i gabelloti ed i "mafiosi" che , una volta acquisito il diritto al voto, strinsero una alleanza politica con i latifondisti, diventandone i galoppini elettorali e ricevendone in cambio "favori e privilegi". Il sostegno dei mafiosi fu ricercato dai vari gruppi politici, sia per intimorire gli avversari sia poiché essi controllavano un congruo numero di voti. Gli unici sconfitti in ogni tornata elettorale erano sempre le classi povere prive del diritto di voto e, quindi, oggetto di tutti i soprusi e le angherie dei gruppi dirigenti locali. L'assoggettamento delle masse popolari non era solo economico, ma generale. Il Sindaco, che veniva nominato dal Governo, poteva facilmente limitare la libertà dei cittadini più ribelli, visto che era lui a rilasciare i certificati di moralità ed a informare il pretore riguardo le persone da sottoporre alle ammonizioni. Egli poteva sostituire l'ufficiale di polizia, assumendone le funzioni e potendo anche, in alcuni casi, effettuare gli arresti. Il Sindaco, inoltre, nella tutela dell'ordine pubblico si avvaleva dell'aiuto delle guardie campestri. Queste non erano altro che gli ex campieri dei feudi che, a partire dal 1866, erano stati organizzati in corpo di polizia municipale, dipendente dal Comune. Le guardie venivano in gran parte reclutate fra i pregiudicati ed i mafiosi del luogo, ed erano addetti di fatto alla tutela delle proprietà del sindaco e dei suoi amici latifondisti: ebbero un grande ruolo nella repressione violenta del movimento contadino. In alcuni comuni esse erano pagate direttamente dai proprietari terrieri; in altri comuni, invece, venivano pagate con i soldi di tutti i contribuenti, per quanto i loro servigi fossero rivolti soltanto ai gruppi dirigenti ed ai proprietari, mentre, al contrario, le masse erano solo vittime della loro violenza ed oppressione. Molteplici furono, dunque, i motivi di malcontento che stavano alla base delle agitazioni che si svilupparono alla fine del 1893. Uno dei motivi per i quali i dirigenti dei Fasci non riuscirono ad avere un totale controllo dell'agitazione fu anche conseguenza del fatto che al contrario di quelle precedenti, questa coinvolgeva svariate categorie sociali: braccianti, contadini poveri, operai disoccupati o sottoccupati delle città, artigiani, commercianti, piccoli e medi proprietari. Per di più, traducendosi in manifestazioni contro i municipi, l'agitazione in alcuni paesi fu strumentalizzata dalla fazione politica borghese avversa al gruppo politico al potere in quel momento; a volte entrarono in opera agitatori e provocatori con il preciso compito di trasformare le manifestazioni pacifiche in disordini, in modo da fornire il pretesto alla forza pubblica per intervenire. Una delle prime dimostrazioni contro le tasse si svolse in agosto a Belmonte Mezzagno, in provincia di Palermo.

La mattina del 12 agosto una cinquantina di donne si radunò davanti al palazzo municipale per protestare contro le tasse e l'amministrazione comunale. L'indomani una delegazione di donne si recò alla caserma dei carabinieri per chiedere l'abolizione del dazio, la destituzione del Sindaco e lo scioglimento del Consiglio comunale. Il 15 agosto, 600 contadini e contadine sfilarono per le vie del paese. Questo pacifico corteo fu fatto sciogliere dal sindaco: tutte le donne presenti alla manifestazione furono arrestate, ed alcuni uomini furono tradotti al carcere di Misilmeri. Il 24 dicembre successivo il Fascio di Corleone organizzò un'assemblea per discutere contro i metodi seguiti dall'amministrazione comunale nella distribuzione delle tasse. Alla fine dell'assemblea circa 4.000 persone si riversarono sulla piazza del Municipio. Bernardino Verro, su sollecitazione dell'ispettore di polizia, invitò la folla a sciogliersi, e la manifestazione si concluse pacificamente. In qualche centro della Sicilia orientale le agitazioni contro le tasse assunsero subito un carattere tumultuoso. A Siracusa, il 10 ottobre una manifestazione di protesta (per la mancata attuazione delle riduzioni di tasse,che l'amministrazione aveva promesso alla cittadinanza) degenerò in tumulto e fu saccheggiato il palazzo municipale (calmato il tumulto la Giunta approvò i provvedimenti promessi). A Floresta, in provincia di Messina, il 22 ottobre fu assaltata la caserma dei carabinieri. Con il passare dei giorni la situazione cominciò a degenerare in tutta la Sicilia. I dirigenti dei fasci, prima ancora che si arrivasse alle devastazioni e agli eccidi, condannarono i primi disordini e gli eccessi delle popolazioni. Ma a partire da dicembre, come vedremo, i tumulti divennero sempre più numerosi e molte dimostrazioni contro i municipi, per l'abolizione delle tasse e dei dazi consumo, si trasformarono in tumulti. I dirigenti dei fasci non riuscirono a controllare il movimento che si allargava rapidamente e in modo disordinato. La sommossa popolare a questo punto diventò un facile pretesto per la liquidazione definitiva del movimento dei fasci ed in alcuni centri rurali, la rivolta fu repressa nel sangue. A sparare sulla folla non furono soltanto le truppe ma anche le guardie campestri al servizio dei proprietari terrieri e dei capi mafiosi.

Il 4 gennaio venne affisso in tutti i paesi della Sicilia un Decreto Reale che proclamava lo stato d'assedio nell'Isola. Aveva così inizio la seconda fase della repressione, quella in cui si procedette alla liquidazione definitiva del movimento dei Fasci siciliani. Di questa seconda fase fu arbitro assoluto il generale Morra di Lavriano, nominato dal Crispi commissario straordinario con pieni poteri militari e civili. Il suo primo atto fu l'ordine di arrestare i membri del Comitato Centrale e i dirigenti più importanti dei Fasci dell'Isola. De Felice, Petrina, De Luca, Montalto, Ciralli e Maniscalco vennero arrestati il 4 gennaio; Bosco, Barbato e Verro il 16 gennaio. Gli arresti colpirono anche i contadini e tutti coloro, professionisti e studenti, che avevano partecipato alle dimostrazioni o semplicemente di simpatizzare per il movimento. In 70 paesi furono attuati arresti in massa. Circa 1000 persone furono inviati al confino senza nessun processo. L'11 gennaio il generale Morra di Lavriano dispose con un editto l'arresto e l'invio a domicilio coatto "degli ammoniti e della gente malfamata". Con questo editto il numero delle persone colpite dalla repressione governativa aumentava in maniera logaritmica. Le persone arrestate o inviate al domicilio coatto in virtù di questo decreto furono 1.962 e tra di esse 361 erano della provincia di Catania e 135 della provincia di Messina, vale a dire di due province dove non si erano registrati tumulti. Naturalmente fu applicata rigorosamente "la sospensione delle guarentigie individuali sancite dallo statuto del Regno, cioè la libertà individuale, l'inviolabilità del domicilio, la libertà della stampa, il diritto di riunione e di associazione". Ciò portò allo scioglimento di tutte le associazioni operaie (compresi i Fasci) e di tutte le cooperative, ma non disturbò il "circolo dei nobili" ed il "casino dei civili" (da non confondere con le case di tolleranza). Si procedette anche ad una revisione delle liste elettorali in base ai desiderata delle amministrazioni comunali. L'8 gennaio furono istituiti tre tribunali militari (Palermo, Messina e Caltanissetta) dove si svolsero tutti i processi contro i presunti responsabili dei tumulti e delle stragi. Le accuse mosse agli imputati si basavano sulle dichiarazioni dei sindaci, delle guardie campestri, dei carabinieri ecc.. Per rendersi conto della loro attendibilità basta considerare che un sordomuto fu imputato per aver emesso "grida sediziose" durante i tumulti di Misilmeri. Col movimento dei Fasci i siciliani si erano battuti contro gli agrari latifondisti, contro la mafia, e contro lo Stato. Ma erano in troppi e tutti dalla stessa parte. Le dure sentenze del tribunale militare di Palermo, scatenarono le reazioni di molti. "Già la sera stessa del 30 maggio 1894, molti studenti si radunarono a Palermo davanti al teatro Bellini e diedero vita ad un corteo cantando l'inno dei lavoratori; il giorno dopo, all'università, votarono un durissimo ordine del giorno contro le condanne e decisero di non presentarsi alle elezioni per protesta (...) La mattina del 31 una grande folla si radunò davanti al carcere per solidarizzare con i capi contadini detenuti, mentre il 1° giugno numerose barchette circondarono al porto di Palermo la nave "India", che stava trasportando verso un lontano penitenziario De Felice, Barbato, Verro, Montalto,Pico e Benzi"2 . Il 14 marzo 1896 il nuovo governo Di Rudinì, concesse l'amnistia ai condannati dai tribunali di guerra per i fatti del '93-94. Fu mantenuto però il divieto di ricostituire i Fasci del lavoratori e qualunque organizzazione dello stesso tipo. Con un provvedimento del settembre 1896 fu sciolta anche la federazione "La terra" di Corleone, fondata da Bernardino Verro, che per sfuggire alla condanna si rifugiò in America, dove continuò a fare propaganda tra gli emigrati siciliani. Sarebbe tornato, Bernardino Verro non era "uomo che scappa", e sarebbe morto.... ammazzato. I provvedimenti del Governo tuttavia non poterono cancellare l'esperienza dei Fasci dalle menti e dalle coscienze delle masse contadine siciliane.

 

1 M. Ganci, 1977

2 D. Paternostro, 1994

 

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