Guardandosi indietro...

21.05.2013 12:19

 


Guardandosi indietro, si può forse annoverare come primo caduto di questa epoca, il redattore dell’Ora di Palermo Mauro De Mauro, rapito il 16/9/1970 e il cui corpo non fu mai ritrovato. Le inchieste del giornalista toccavano alcuni dei casi più scottanti del momento, e tra questi il coinvolgimento della mafia nell’omicidio del presidente dell’Eni Enrico Mattei e nel Golpe Borghese, con tutte le implicazioni internazionali di natura politico economica. Se De Mauro pagò ciò che stava per scoprire in quelle intrigate vicende, o per il suo costante impegno verso l’affermazione della verità con la denuncia delle attività mafiose, non fu mai stabilito ufficialmente. Dichiarazioni di pentiti dello spessore di Tommaso Buscetta, affermarono che venne rapito ed eliminato su ordine di Stefano Bontate, perché stava per avvicinarsi troppo alla verità sulla morte di Mattei e al ruolo giocato da Cosa Nostra. Altri come Gaspare Mutolo dissero più genericamente perché «…si accaniva a scrivere contro la mafia…».

De Mauro puntava al premio Pulitzer, convinto come era che le informazioni in suo possesso coinvolgenti mafia, massoneria, Cia, e servizi segreti italiani, avrebbero scosso l’opinione pubblica. Secondo altre testimonianze di collaboratori di giustizia raccolte negli anni, il cronista venne sequestrato, interrogato e ucciso. Il corpo pare venne prima seppellito in un cimitero della mafia, per poi essere sciolto tempo dopo nell’acido. Il sostituto procuratore di Palermo Giacomo Conte, che nell’aprile del ’91 ha riaperto il caso De Mauro confermò questa tesi dichiarando: «…dalle carte che ho letto…nella scomparsa di De Mauro si può configurare la presenza di mafia, servizi segreti, Gladio e massoneria deviata». Nessun colpevole fu mai condannato per la sua scomparsa.

 

La morte di Mauro De Mauro è la seconda in ordine di tempo tra i giornalisti uccisi dalla mafia. Dieci anni prima il 5 marzo del 1960, venne ritrovato morto sui binari della ferrovia a Termini Imerese, Cosimo Di Cristina, corrispondente venticinquenne anch’egli dell’Ora di Palermo. Assassinato per le sue indagini che intrecciavano il traffico di droga e armi di mafiosi della zona, con esponenti locali del mondo politico, subì una ingiuriosa campagna diffamatoria prima e dopo la sua morte, per delegittimarne la figura di giornalista e la credibilità delle notizie che aveva divulgato. Persino il prete locale si rifiutò di celebrargli il funerale, perché le frettolose e superficiali indagini si chiusero con una morte accertata per suicidio: un insano gesto che ufficialmente non consentiva a Cosimo di beneficiare di una cerimonia cristiana.

In realtà secondo i suoi familiari, Di Cristina venne rapito e ucciso, per poi far rinvenire il cadavere sui binari e mediante la rete di potenti collusi che operavano nella regione, depistare le indagini per convogliarle sulla pista del suicidio. Nessuno si espose per sottrarre la giovane vittima al pubblico e strumentale ludibrio. Di Cristina venne assassinato due volte: fisicamente e moralmente. Il 13 ottobre del 1971, con oltre 11 anni di ritardo, si chiuse il processo d’appello su una serie di fatti criminosi commessi a Termini Imerese e dintorni, tra cui l’omicidio di Cosimo. Tutti gli imputati vennero assolti.

Alcuni mesi prima, il 5 maggio del 1971, mentre stava rientrando a casa dopo una visita alla tomba della moglie, il procuratore della repubblica di Palermo Pietro Scaglione, viene trucidato insieme all’autista Antonino Lo Russo. E’ un delitto le cui proporzioni verranno comprese appieno non nell’immediato. Si trattava del primo magistrato ucciso dalla mafia dal dopoguerra, ma all’epoca dei fatti, attorno al nome di Scaglione gravavano forti sospetti di collusione con la malavita organizzata. Qualcuno arrivò a gettare fango in tal misura sulla figura del magistrato, che l’episodio venne definito un regolamento di conti interno alla mafia. Nel tempo i sospetti si rivelarono infondati e il nome di Scaglione venne riabilitato. Riemerse tutto il suo impegno di onesto uomo di giustizia in una vita spesa a combattere la mafia.

Ancora una volta si riscontrava il successo della tattica infamante di Cosa Nostra, che utilizzando la sua fitta rete di affiliati inseriti in ogni anfratto del tessuto sociale, diffonde calunnie per annullare la reputazione privata e la credibilità professionale delle sue prossime vittime. Un efficace modo per attenuare l’impatto della morte di chiunque sull’opinione pubblica. «Voci autorevoli» finivano per far passare il messaggio che «se lo era meritato», perché «chissà in quali loschi affari si era lasciato trascinare». Spesso la riabilitazione giunge tardiva, quando ormai il delitto è stato commesso da tempo e le indagini stesse, in una terra complicata come la Sicilia, rischiano a volte di essere influenzate dal clima indotto dalle diffamazioni. L’inchiesta per l’omicidio di Pietro Scaglione eluse queste trappole, e condusse alla colpevolezza di Luciano Liggio, il leader dei corleonesi in quegli anni. Ed è proprio da Corleone, che questi fili grondanti di sangue sono destinati a riannodarsi con gli analoghi refi, che ha distanza di anni gli eredi di Liggio, Riina e Provenzano, muoveranno in quello che assumerà i contorni del più massiccio attacco frontale allo Stato per opera di Cosa Nostra.

Alcuni passi indietro nel tempo, per consentire una visione più ampia di quale sanguinaria epoca si stava inaugurando.

Alcuni passi indietro nel tempo, per rendere omaggio alla memoria di uomini che alla lotta alla mafia dedicarono la vita. Perdendola.

Quando nel 1977, il 20 di agosto, proprio a Corleone venne assassinato il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo insieme all’insegnante Filippo Costa, ancora si credeva di assistere ad omicidi isolati, non inseriti in un contesto più vasto. Nel 1979 però la nuova strategia appare evidente agli occhi di tutti. In un solo anno a Palermo, Cosa Nostra uccide il cronista del «Giornale di Sicilia» Mario Francese (ucciso per le denunce sul filo che univa i corleonesi di Riina agli scandali dell’esattoria tributaria dei cugini Salvo, e alla ricostruzione del Belice affidata ad imprese sempre controllate da u ’curtu); il capo della Squadra Mobile Boris Giorgio Giuliano (il mandante Leoluca Bagarella non apprezzò le sue indagini sul giro di capitali siculo americani); il segretario della DC del capoluogo Michele Reina, ed il giudice istruttore Cesare Terranova insieme all’autista, il maresciallo di polizia Lenin Mancuso.

Terranova era uno dei magistrati più esposti, per aver condotto una buona parte delle inchieste scaturite dalla «Prima Guerra di Mafia». Deputato per due legislature, eletto tra le liste del PCI come indipendente, fu anche membro della Commissione Antimafia. Era non da molto rientrato in magistratura, ed il suo omicidio secondo alcuni fu quasi preventivo. La mafia non eliminava solo chi già era in cima alla lista dei suoi antagonisti, ma anche chi si proponeva come un avversario in grado di creare problemi nel futuro prossimo. Un chiaro avvertimento per chiunque intendesse seguire le sue orme. Cesare Terranova fu lasciato solo.

Gli esponenti politici di spicco locali non lo affiancarono, e anche all’interno della magistratura stessa, si formò un vuoto attorno al suo fervente attivismo. Un denominatore comune per molti che scelsero di affrontare Cosa Nostra a viso aperto in quegli anni.

La città è sconvolta da questa sequela di omicidi brutali e temerari verso uomini delle istituzioni. Delitti compiuti seguendo il medesimo modus operanti utilizzato nelle faide interne all’organizzazione: in pieno giorno, in luoghi affollati, spesso con l’impudenza di chi agisce a viso scoperto. I corleonesi hanno lanciato un guanto di sfida inequivocabile: qualunque pubblica figura si interponga al loro cammino deve essere eliminata. Lo Stato non appare in grado di fornire una reattiva risposta, ed il 1980 si apre con il delitto compiuto il giorno della befana, in auto sotto gli occhi della moglie seduta al suo fianco, del Presidente della Regione Sicilia, il democristiano Piersanti Mattarella, giovane leader di quella corrente riformatrice che in seno alla DC, si batteva affinché il partito svolgesse una più trasparente e incisiva lotta alla criminalità organizzata. La sua morte costituiva un limpido messaggio di Cosa Nostra verso chi, all’interno della maggiore forza politica di governo della regione e del paese, aspirava come Mattarella ad una politica moderna, meno schiava del clientelismo, del voto di scambio e delle raccomandazioni.

All’inizio di maggio è il turno del capitano dei carabinieri Emanuele Basile, comandante della stazione di Monreale. È in piena estate però, il 6 di agosto, che la mafia sferra il colpo che per luogo, circostanze e obbiettivo, susciterà maggiore rabbia, paura, sconcerto. Il procuratore generale di Palermo Gaetano Costa, viene assassinato mentre compie la sua consueta e oramai imprudente passeggiata per le vie del centro del capoluogo. Il suo corpo crivellato rimane a terra nei pressi del Teatro Massimo. Uno dei nemici più acerrimi, eliminato in uno dei luoghi simbolo della città, tra una folla di passanti, nel cuore mondano e culturale di Palermo, pari a Piccadilly Circus di Londra o Time Square di New York. Costa era professionalmente un duro, un integerrimo uomo di legge: aveva appena firmato 60 ordini di cattura per altrettanti mafiosi, provvedimento che i suoi sostituti si erano rifiutati di eseguire.

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