Gli imprenditori accusarono i politici
21.05.2013 13:23
«Vede, Tangentopoli ha due protagonisti, Gustavo Dandolo e Godevo Prendendolo...». Così l’avvocato Giovanni Maria Flick, avvocato di tanti illustri imputati di Mani pulite e poi, nel 1996, ministro della Giustizia nel governo Prodi, spiega il rapporto che si era creato tra imprenditori e politici. È proprio spezzando il sodalizio e l’omertà tra i due soggetti della corruzione che Di Pietro e colleghi fanno decollare la loro inchiesta.
Il primo a crollare è stato un politico: Mario Chiesa. Che altro poteva fare? Era in cella da più di un mese. Attraversava un momento particolarmente difficile della sua vita personale. Di Pietro gli aveva individuato e sequestrato una dozzina di miliardi. Gli imprenditori che lo avevano foraggiato cominciavano a tradirlo. E perfino il suo partito, al quale aveva portato per anni voti e soldi, lo aveva abbandonato: lui, che sperava di diventare sindaco di Milano, era stato definito da Bettino Craxi un «mariuolo».
Così, il 23 marzo 1992, l’aspirante sindaco comincia a confessare le sue tangenti. Il 22 aprile vengono arrestati otto imprenditori, i primi di una lunga serie: hanno lavorato per il Trivulzio, hanno pagato tangenti a Chiesa. Confessano quasi subito. Sono sollevati, alla fine, si sono liberati da un peso: non solo morale, ma anche economico. Mani pulite esplode.
Tanti altri imprenditori corrono a raccontare le loro tangenti. Denunciano i cassieri segreti dei partiti, quelli che facevano il giro a raccogliere mazzette. Tra questi, il democristiano Maurizio Prada, presidente dell’Atm (l’azienda milanese dei trasporti), che fa compiere all’indagine una svolta: ma come, noi politici siamo diventati i cattivi, la gente applaude al nostro arresto; e loro, gli imprenditori, che fino a ieri ci correvano dietro per pagarci e vincere gli appalti senza fatica, ora fanno i concussi, i santerellini obbligati a pagare dai partiti malvagi? Ora li aggiusto io, avrà pensato. E ha cominciato a raccontare le tangenti gentilmente offerte da una azienda che, grande com’è, se avesse voluto, avrebbe certamente potuto non pagare: la Fiat.
Racconta, Prada, prima le mazzette pagate dai pesci piccoli. Poi quelle di Enso Papi, il numero uno della numero uno tra le imprese edili italiane, la Cogefar (gruppo Fiat). Infine, nel febbraio 1993, racconta una cordiale colazione di lavoro in una saletta appartata del ristorante milanese Club 44, avvenuta nel maggio 1988: con lui, due altissimi dirigenti della Fiat, Antonio Mosconi (già vicepresidente della Cogefar e da due mesi amministratore delegato della Toro Assicurazioni) e Francesco Paolo Mattioli (presidente della Cogefar e direttore centrale finanziario della Fiat: sopra Mattioli c’è direttamente Cesare Romiti). «Sapevano perfettamente delle tangenti», rivela Prada.
I giovani della Confindustria, riuniti a Santa Margherita, il 5 giugno 1992 avevano accolto e applaudito Di Pietro come una star: era l’uomo che li stava liberando di politici e amministratori corrotti ed esosi. Gianni Agnelli in quegli stessi giorni aveva detto dei magistrati: «Stanno lavorando. È bene che lo facciano serenamente e tranquillamente. Gli scandali, quando ci sono, è sempre bene che vengano a galla. Si faccia piena luce e si accertino i fatti. Non credo alla mezze misure, in certe situazioni è determinante la chiarezza totale». Poi le inchieste proseguono e arrivano fino a Romiti, a De Benedetti, a Gardini, a Berlusconi... E dagli applausi si passa alle campagne di stampa contro i giudici.
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