«Giustizia»?

21.05.2013 11:48

 

Nel dicembre del 1968, si giunse alla sentenza del processo istituito a Catanzaro sui delitti della prima guerra di mafia. Alla sbarra finirono 117 imputati. Il verdetto colpì duramente una manciata di eccellenti mafiosi (Pietro Torretta 27 anni; Angelo La Barbera 22 anni e 6 mesi; Salvatore Greco e Tommaso Buscetta 10 e 14 anni in contumacia), ma si risolse con pene per reati minori, nella stragrande maggioranza degli altri casi. In tanti beneficiarono di una scarcerazione immediata.
Nelle motivazioni della sentenza, emerge come i giudici non siano riusciti ad interpretare al meglio l’essenza mafiosa. Un risultato che replica quello ottenuto nel 1901 dopo l’indagine condotta dal prefetto Sangiorgi, ma manca in questa circostanza, l’attenuante di una magistratura fortemente collusa. La mafia non viene inquadrata come un'unica struttura, ma come un insieme di molte “ associazioni indipendenti “. Manca l’individuazione di regole e metodi comuni a tutti gli affiliati, e riemergono chiavi di lettura trite e ritrite, come quella che definisce Cosa Nostra «un atteggiamento psicologico o la tipica espressione di uno sconfinato individualismo», quale sfondo della evidente delinquenza collettiva. Si accetta che la sostanza mafiosa sia ancora «una idea e non una cosa».


Alla luce di questa nuova sconfitta della giustizia, determinata più dall’inadeguatezza che dalla immoralità, il contributo che fornirà tra diversi anni Tommaso Buscetta, diventerà di enorme importanza. Attraverso le sue parole, il paese ed il giudice Falcone, acquisiranno quella che sarà la moderna interpretazione della struttura mafiosa. Senza le confessioni dei pentiti o le testimonianze dirette, risulta impossibile avere la percezione di una tale ramificazione convergente ad un unico vertice. Nel processo di Catanzaro come tante altre volte in passato, tanti testimoni nel tempo ritrattarono, attanagliati dalla paura per vendette e ritorsioni, su se stessi, familiari, o attività economiche. Vengono così a mancare gli strumenti per nutrire la giuria con materiale probatorio inconfutabile, e cade nel vuoto la ricostruzione della rete di collegamento mafiosa nel territorio.
Non cadrà nel vuoto invece, la sentenza di colpevolezza presa di comune accordo da varie famiglie, che proclamarono nei confronti di Michele Cavataio nel dicembre del 1969. Colui che fu uno dei sicuri colpevoli del bagno di sangue che dilagò tra il ’62 e il ’63, venne crivellato di colpi da un commando di sicari vestiti da poliziotti. Fu per molti questo, l’atto conclusivo della prima guerra di mafia.
Cosa Nostra intanto, dopo la pausa imposta dal terremoto degli anni sessanta, si preparava ad un ritorno in grande stile.  

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