"Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere.”
L'hanno imparata in milioni, questa frase. Ha un retrogusto amaro, che né il tempo né l'attualità potrà cancellare. Ha il gusto di denuncia e di ineluttabilità.
Quella frase è di Giovanni Falcone. Un uomo che non voleva diventare un eroe. Non era questo che lo spinse a dedicare la sua vita alla lotta alla mafia. Non c'era nessuna esigenza di gloria nei suoi intenti, quanto piuttosto un'urgenza di giustizia. Un uomo, forse il primo, che s'avvicinò al mondo della criminalità organizzata con occhio diverso, che si calò completamente nel fenomeno mafioso, per conoscerlo e dunque combatterlo dall'interno. Sentirsi considerare un uomo d'onore non lo infastidiva, perché, in fondo, lo era. E lo chiamava così il pentito Calderone, quando spiegò perché avesse deciso di parlarci. “Perché Falcone è un uomo d'onore.”
Impariamo a dare un giusto significato alle parole. L'onore, quello vero, di chi è giusto e combatte per la giustizia. Di chi sapeva che presto o tardi sarebbe stato ucciso, e l'attentato all'Addura non era che il primo tentativo, e non per questo si tirò indietro. Di chi, sulla morte, ci scherzava su, con fatalismo, coraggio, mai incoscienza.
Falcone era un uomo d'onore, d'onore vero, perché conosceva la Sicilia e la mafia, per quella contiguità di cui parlava spesso: il contesto ambientale in cui era cresciuto, che gli permetteva di sapere esattamente come i mafiosi comunicassero tra loro, come il minimo gesto potesse significare tutt'altro, un criptico codice segreto all'interno del quale il giudice era riuscito a inserirsi per decifrarlo e, talvolta, imitarlo. Sapeva muoversi, Falcone, su quella linea che univa lui e i suoi compaesani, anche quelli criminali, con cui, magari, era cresciuto o, come raccontò in un'intervista a Marcelle Padovani, giocava a ping pong all'oratorio, da ragazzino.
Falcone era un uomo d'onore, d'onore vero, perché conosceva la Sicilia e la mafia, per quella contiguità di cui parlava spesso: il contesto ambientale in cui era cresciuto, che gli permetteva di sapere esattamente come i mafiosi comunicassero tra loro, come il minimo gesto potesse significare tutt'altro, un criptico codice segreto all'interno del quale il giudice era riuscito a inserirsi per decifrarlo e, talvolta, imitarlo. Sapeva muoversi, Falcone, su quella linea che univa lui e i suoi compaesani, anche quelli criminali, con cui, magari, era cresciuto o, come raccontò in un'intervista a Marcelle Padovani, giocava a ping pong all'oratorio, da ragazzino.
La mafia, per Falcone, non era un anti-stato, quanto piuttosto un sistema parallelo ad esso, un sistema da combattere, certo, ma soprattutto da comprendere. E, per paradosso, un servitore dello Stato come lui non era raro che scavalcasse i confini tra i due mondi e si ponesse in difesa di quei pentiti, come Calderone o Buscetta, contro le Istituzioni di cui egli stesso faceva parte. Perchè non solo poteva esserci un'inaspettata umanità anche in loro, ma soprattutto, poteva sussistere una disumanità incredibile da parte dei servitori della giustizia, che vestivano l'abito dei difensori della patria, ma che rifiutavano di stropicciarselo avvicinandosi troppo alla criminalità.
Falcone godeva del rispetto dei pentiti, godeva del rispetto anche di coloro che al pentimento non erano mai arrivati ma che non osavano mai ritenerlo inferiore. Lui non era uno dei tanti, era il più pericoloso perchè era al loro livello, era pari.
Falcone godeva del rispetto dei pentiti, godeva del rispetto anche di coloro che al pentimento non erano mai arrivati ma che non osavano mai ritenerlo inferiore. Lui non era uno dei tanti, era il più pericoloso perchè era al loro livello, era pari.
Sì, Falcone fu un uomo d'onore, d'onore vero, perché non si arrese. Perché apparteneva “a quella categorie di persone che ritiene che ogni azione debba essere portata a termine. Non mi sono mai chiesto se dovevo affrontare o no un qualche problema, ma solo come affrontarlo.”
Fu d'onore, d'onore vero, perché si ritrovò a fronteggiare non solo un fenomeno criminale, ma anche e soprattutto un sistema interno allo Stato che lui stesso tentava di difendere e, non per questo, decise di subirlo. Voleva estirparlo, confidando che, prima o poi, la mafia sarebbe stata vinta. La speranza di vedere decapitata la criminalità organizzata lo manteneva in piedi, lo spingeva a compiere un passo dopo l'altro, prima nella sua Sicilia e poi, in seguito a Roma. Laddove le sue indagini non potevano essere compiute in prima persona, ma quanto ancora riusciva a scoprire, quanto ancora riusciva ad essere presente per le strade di quella Palermo! L'uomo del maxiprocesso che non s'accontentava di aver fatto così tanto, di aver assestato un così duro colpo a Cosa Nostra; era necessario eliminarla, ripulire la sua terra e, poi, tutt'Italia. Riprendersela. Proprio come noi non possiamo aver timore di riprenderci anche il lessico che i mafiosi hanno utilizzato per anni, stravolgendolo, sporcandolo. Allora ecco che “uomo d'onore” era Falcone. E “pisciata di cane” era quello che lui voleva che venisse compiuto. Riprendersi un territorio, delimitarlo, consegnarlo alla giustizia. E “pisciata di cane” è anche quello che noi non possiamo aver timore di fare su Falcone. Dobbiamo riprendercelo, tenerlo con noi, perchè lui è cosa nostra. E' cosa di un popolo, è cosa d'Italia, dell'Italia dei giusti, di coloro che sperano e lottano, di coloro che ogni giorno denunciano, di coloro che non si pongono in primo piano, ma in prima linea sì. Di coloro che quando pensano a Falcone non pensano a un eroe, ma a sessanta milioni di persone. E che quando incrociano una fotografia dell'autostrada A29, su un giornale o su un cartello,non pensano ad un magistrato morto, ma a un popolo che vive e che l'eredità di Falcone ha fatto propria.
Fu d'onore, d'onore vero, perché si ritrovò a fronteggiare non solo un fenomeno criminale, ma anche e soprattutto un sistema interno allo Stato che lui stesso tentava di difendere e, non per questo, decise di subirlo. Voleva estirparlo, confidando che, prima o poi, la mafia sarebbe stata vinta. La speranza di vedere decapitata la criminalità organizzata lo manteneva in piedi, lo spingeva a compiere un passo dopo l'altro, prima nella sua Sicilia e poi, in seguito a Roma. Laddove le sue indagini non potevano essere compiute in prima persona, ma quanto ancora riusciva a scoprire, quanto ancora riusciva ad essere presente per le strade di quella Palermo! L'uomo del maxiprocesso che non s'accontentava di aver fatto così tanto, di aver assestato un così duro colpo a Cosa Nostra; era necessario eliminarla, ripulire la sua terra e, poi, tutt'Italia. Riprendersela. Proprio come noi non possiamo aver timore di riprenderci anche il lessico che i mafiosi hanno utilizzato per anni, stravolgendolo, sporcandolo. Allora ecco che “uomo d'onore” era Falcone. E “pisciata di cane” era quello che lui voleva che venisse compiuto. Riprendersi un territorio, delimitarlo, consegnarlo alla giustizia. E “pisciata di cane” è anche quello che noi non possiamo aver timore di fare su Falcone. Dobbiamo riprendercelo, tenerlo con noi, perchè lui è cosa nostra. E' cosa di un popolo, è cosa d'Italia, dell'Italia dei giusti, di coloro che sperano e lottano, di coloro che ogni giorno denunciano, di coloro che non si pongono in primo piano, ma in prima linea sì. Di coloro che quando pensano a Falcone non pensano a un eroe, ma a sessanta milioni di persone. E che quando incrociano una fotografia dell'autostrada A29, su un giornale o su un cartello,non pensano ad un magistrato morto, ma a un popolo che vive e che l'eredità di Falcone ha fatto propria.
Tratto da: Free Italia