«Fanno il tifo per noi»

21.05.2013 12:53

 

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino hanno tratteggiato un epoca in cui a combattere la mafia era una esigua, assediata, compatta e inossidabile minoranza. I due magistrati erano amici da anni all’epoca del loro trasferimento per ragioni di sicurezza all’Asinara, in quel agosto del 1985, mentre preparavano l’istruttoria del maxi processo. Erano cresciuti in un quartiere del centro di Palermo da genitori dello stesso ambiente borghese.

Giovanni nasce il 20 maggio del 1939, da Arturo, direttore del laboratorio chimico provinciale, e da Luisa. Di qualche mese più giovane è Paolo, che viene alla luce il 19 gennaio del 1940 da genitori farmacisti. Il Liceo classico, l’ “Umberto” per Giovanni, il “Meli” per Paolo, sarà il naturale viatico per la successiva iscrizione alla facoltà di giurisprudenza. Falcone conseguirà la laurea nel 1961, Borsellino nel giugno dell’anno successivo: ambedue poco più che 22enni. Attratti dal settore penale affronteranno il concorso per diventare magistrati, e una volta superatolo intraprenderanno i primi passi in diverse procure della Sicilia.

Paolo viene inviato nel 1965 al tribunale civile di Enna come uditore giudiziario. Il suo primo incarico direttivo giunge nel 1967, con la pretura di Mazzara del Vallo. Il 23 dicembre del 1968, Borsellino si sposa con Agnese a Palermo. Nel 1969 viene trasferito alla pretura di Monreale dove lavorerà a fianco del Capitano dei Carabinieri Emanuele Basile. L’incontro con il futuro padre tutelare Rocco Chinnici avverrà nel luglio del 1975, quando Paolo entra a far parte dell’ufficio istruzione processi penali della procura di Palermo.

Dopo il superamento del concorso in magistratura, Giovanni fu nominato pretore a Lentini nel 1964, per poi trasferirsi a Trapani e vestire per circa dodici anni il ruolo di sostituto procuratore. Nel luglio del 1978 si trasferisce nel capoluogo, quando all’indomani del drammatico attentato datato 25 settembre 1979, in cui perse la vita il giudice Cesare Terranova e Falcone iniziò a lavorare all’ufficio istruzione di Palermo, si compì il destino che congiunse la carriera professionale dei due magistrati.

Avevano in comune una fede autentica nella giustizia e una devozione incrollabile nell’applicarla, un senso del dovere granitico unito ad un amore smisurato per la loro terra. Fu una amicizia destinata a saldarsi rapidamente, ma all’indomani della morte di Rocco Chinnici nell’estate del 1983, per entrambi punto di riferimento non solo lavorativo, il sodalizio si cementò fino alla fine dei loro giorni.

L’autobomba con la quale venne assassinato il capo dell’ufficio istruttorio di Palermo, morte violenta dalla dinamica tragicamente profetica, generò quella condivisione del dolore, della paura e forse di un destino, simile dalle testimonianze a quelle di chi ha combattuto per lungo tempo fianco a fianco in guerre di trincea.

A marcare una profonda differenza però, fu che i due magistrati avrebbero potuto defilarsi, magari accampando qualsiasi sorta di motivazione per abbandonare il campo. In pochi avrebbero osato proferire parola, tanto diffusa era stata nei decenni l’abitudine a non affondare i denti nelle carni mafiose in cambio di un tranquillo incedere delle cose.

Nulla era più lontano dal loro modo di sentire e vivere la professione di giudice.

La politica cercò ripetutamente di arruolarli per intuibili ragioni di convenienza, ma essi respinsero con forza ogni tentativo. Borsellino fu da ragazzo un militante in movimenti di destra, impegno frutto di eredità dell’ambito familiare, mentre di inclinazioni politiche prossime alla sinistra era invece Falcone. Negli anni i due magistrati conservarono una diversa visione della città di Palermo in relazione all’atteggiamento verso il loro lavoro: più ottimista e fiducioso Borsellino che ripeteva di sovente «…fanno il tifo per noi…»; Falcone invece si esprimeva con maggiore scetticismo verso le capacità dei palermitani di sostenere la loro azione.

Le circostanze gli suggerirono di muoversi con un costante e massiccio seguito di auto blindate, corredato da uomini armati di mitra con il giubbotto antiproiettile. Molte le polemiche spesso strumentali, con cui cittadini del capoluogo più o meno stimati, sollevarono polemiche al riguardo del presunto disagio per la collettività generato dal rumoroso e spericolato transito dei cortei di scorta del giudice Falcone, per le già intasate strade della città.

Aldilà dei successi in ambito investigativo, l’immenso valore che circonderà l’opera di questi due uomini consegnandoli alla storia del nostro paese, risiede nel decisivo contributo alla formazione di una nuova cultura dell’antimafia. Un intero movimento si mobilitò e prese man mano sempre più forza, trascinato dal loro lavoro e dal messaggio culturale contenutovi. Decine e decine di attivisti e studenti organizzarono dimostrazioni e conferenze, e persino una nuova base di figure ecclesiali, scelse di schierarsi apertamente contro la mafia, i politici collusi, soccorrendo i più deboli e tutti i cittadini vessati e sfruttati dalla malavita. Tra questi, anche figure di spicco quale il Cardinale Pappalardo.

Nel luglio del 1985 venne eletto sindaco di Palermo il democristiano Leoluca Orlando, e anch’egli prese posizione limpidamente contro la mafia. Orlando era un giovane esponente di punta di una ondata di fresca rinnovazione tra le schiere dell’amministrazione del capoluogo, rinominata anche come «Primavera di Palermo». Un evento in netto contrasto con le sue secolari radici di collusione mafiosa.

Ciò nonostante una gran parte dei cittadini rimase in attesa degli eventi, con fare di apparente e quasi distaccata neutralità, forse perché dinanzi alla profonda conoscenza delle radici del potere mafioso, in tanti ritenevano questo apparente risveglio di coscienze come un momentaneo fuoco di paglia destinato ad esaurirsi in fretta. Se molti non si esponevano per paura di rappresaglie anche future, è altrettanto vero che tanti altri giudicavano con scetticismo l’eventualità di una Sicilia migliore se liberata dalla mafia, in quanto troppo attecchita nel tessuto culturale della società. Un giudizio che può apparire troppo severo, ma che va misurato con adeguata empatia, sforzandosi di non leggerlo per intero come una espressione di palese collusione, ma più come un inevitabile effetto collaterale di generazioni sottoposte a dominazione da parte di un sistema, e oramai incapaci di immaginare e credere ad un futuro diverso dal passato.

Al riguardo Falcone arrivò a dire: «Mi sembra che questa città stia alla finestra a vedere come finisce la corrida».

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