Ego te absolvo

21.05.2013 13:30

Mi disse che si stava parlando di dissociazione - afferma Spatuzza riferendo di un incontro con Filippo Graviano avvenuto in carcere nel 2004 - ma che noi eravamo interessati. [...]Se non arriva niente da dove deve arrivare è bene che anche noi cominciamo a parlare con i magistrati.

Dietro quella parola, “dissociazione”, c’è un grande progetto. Che nelle intenzioni di Cosa nostra, e non solo, potrebbe servire a far chiudere l’epoca della mafia stragista contribuendo a farne nascere un’altra. Una parola tornata alla ribalta da quando è comparso il papello di Riina, che al punto 5 recita: “Riconoscimento benefici dissociati-Brigate rosse- per condannati di mafia”.

Quella della dissociazione è stata una misura varata negli anni Ottanta: riguarda gli aderenti ai gruppi terroristici, e prevedeva non il pentimento, e dunque l’obbligo di denunciare altrui responsabilità, ma l’allontanamento dall’ideologia. In sostanza, i terroristi dissociati ammettevano la sconfitta politica delle loro azioni, potendo cosi accedere a una pena inferiore. Ma gli uomini d’onore da cosa possono dissociarsi? Semplice: dalle stragi, dai morti innocenti, dalle devastazioni, dalla guerra allo Stato. A questo mira una parte di Cosa nostra: non tutti i boss hanno deciso le stragi, quindi non tutti sono colpevoli.Un discorso pericoloso, che potrebbe però aiutare la mafia a sopravvivere e a navigare placida nel nuovo millennio.

La dissociazione è il papello di Provenzano.

E’ Luigi Ilardo a parlare di questo piano degli uomini di Provenzano, lo fa nell’aprile 1994, e il tenente colonnello ne riferisce nel proprio rapporto.

Come in quei tempi veniva rappresentato dalla stampa, era veritiero che molti mafiosi avessero rappresentato tramite sacerdoti la volontà di “dissociarsi” dai loro sodalizi confessando le proprie responsabilità. Tale disponibilità secondo la fonte nascondeva la strategia della mafia di voler far credere di essere intenzionata a deporre le “armi” rendendo noto quanto già era intuibile alle forze di Polizia, e di conseguenza tranquillizzando l’opinione pubblica, ma di fatto volendo continuare ad operare tramite una nuova struttura costituita da persone incensurate e pertanto insospettabili.

Dal 1994 parecchi religiosi, più che le sagrestie, gli oratori o le vittime della mafia,frequentavano le case e le celle dei mafiosi. Il primo a farlo è un certo fra’ Celestino, dell’ordine dei francescani. Opera nella zona di Corleone in una comunità dal nome evocativo: I rinnovabili. Tra il’ 94 e il’ 95 riesce a tenere un contatto epistolare con Salvatore Riina, detenuto al 41 bis, e con il figlio del boss, Giovanni.

Anche Bernardo Provenzano può godere del conforto spirituale di un confessore, con cui discute il progetto di dissociazione per gli uomini d’onore ormai bruciati dalle indagini sulle stragi.

A confermarlo molti anni dopo è il parroco palermitano Giacomo Ribaudo. Narra di essere stato protagonista, tra il’ 94 e il’ 95, di un pressing sui capimafia per spingerli alla conversione.Il prete svela anche di avere incontrato il boss Pietro Aglieri, che sarà condannato per l’uccisione di Paolo Borsellino.

Ebbi notizia nel 1994 nel periodo in cui fui chiamato da Aglieri e da altri esponenti dell’organizzazione che avevano iniziato una riflessione dopo l’appello del Papa alla conversazione. Mi dissero che un gruppo di uomini d’onore era pronto a consegnarsi, a condizione di non essere obbligati ad accusare i compagni.

Aglieri affida a Ribaudo una lettera in cui traccia il confine fra pentimento cristiano e pentimento davanti agli uomini.

Due persone in particolare - ricorda Ribaudo - mi dissero che c’era anche Provenzano nel gruppo. Chiesi di incontrarlo. Mi dissero: “Le faremo avere una risposta”. Che arriva dopo una settimana: “Se si tratta di un incontro di carattere spirituale [...] Provenzano ha già il suo confessore”. Non dissi altro, feci appello pubblico, insieme a monsignor Riboldi, vescovo di Acerra, a cui si era rivolto, con le stesse intenzioni, un gruppo di uomini della camorra. Ne parlai anche con il cardinale di Palermo Salvatore Pappalardo e con l’autorità giudiziaria, ma mi trovai di fronte a un muro spesso cosi. L’unica preoccupazione della magistratura sembrava quella di sapere chi avesse incontrato, e dove.

Il piano della dissociazione è messo in pratica pubblicamente, nell’aula del senato dove giace un disegno di legge che vorrebbe regolamentare la materia. Lo presentano, nell’agosto e nel dicembre 1996, tre senatori del Ccd: ‘ex magistrato agrigentino Melchiorre Cirami, l’avvocato calabrese Bruno Napoli e l’ex democristiano campano Davide Nava. Il titolo non lascia spazio a interpretazioni: Norme a favore di chi si dissocia dalla mafia.

Dunque, anche sotto le volte damascate del Senato riecheggia la parola magica che gli uomini di Provenzano pronunciano dai propri rifugi: dissociazione. Comporterebbe sostanziali riduzioni di pena, riconquista della libertà dopo un periodo di «riabilitazione controllata», la possibilità di porsi al riparo dalle cosiddette misure di prevenzione, quelle che obbligano al confino e aggrediscono i patrimoni.

A certi giustizialisti non piace la mia proposta sulla dissociazione – spiega Melchiorre Cirami il 9 giugno 2000 in un'intervista rilasciata a Carlo Bonini per il «Corriere della Sera» - per il semplice motivo che non implica la delazione. […] Come vuole chiamare i pentiti se non delatori?

Poco importa al senatore-magistrato che la legge li definisca «collaboratori di giustizia».

Ma non facciamo gli ipocriti – si impunta. - I pentiti non solo non sono serviti a sconfiggere la mafia, ma hanno soltanto moltiplicato le occasioni di vendetta e di costruzione di teoremi politici. La verità è che qui bisogna avere il coraggio di ripensare tutto, anche questo regime carcerario del 41bis. Ormai somiglia più a una tortura che a una pena. Una tortura per costringere a dire quello che si vuol far dire. [...] La mafia non si sconfigge con i processi, ma con i simboli. Ha fatto di più in Sicilia il prefetto Mori, negli anni trenta, che decine di anni di certa antimafia. Mori fece sfilare in catene nei paesi. Li demolì psicologicamente.

Quel disegno di legge prevede che il mafioso, dopo un periodo di “riabilitazione”, riacquisti la libertà e conservi il patrimonio. “Una speranza bisogna pure lasciarla”, commenta in proposito Cirami. La dissociazione è dunque una trappola, un cavallo di Troia che distruggerebbe la legislazione antimafia. Proviamo a immaginare la scena di un Salvatore Riina o di un Bernardo Provenzano che vi aderiscano.

“Mi dissocio dalla mafia, ma per favore, non chiedetemi chi sono i miei complici, né dove ho riciclato i soldi delle mie attività di mafioso”, sarebbe la risposta.

Davanti a una dichiarazione del genere, gli inquirenti dovrebbero chiudere le indagini e fingere che nulla sia accaduto. Un’idea cosi ecumenica non poteva che arrivare dalla Chiesa. Ma a quale dio si sono rivolti alcuni sacerdoti per partorirla, dopo decenni di silenzio di fronte al crimine mafioso e a pochi anni dalle stragi? Certo non al dio della vendetta né a quello del perdono. Forse a un dio che ha le fattezze di un contadino siciliano dell’entroterra.

Il progetto ricompare nel maggio del 2000, quando un gruppo di boss incarcerati accenna al procuratore nazionale antimafia Pire Luigi Vigna una timida volontà a dissociarsi. In prima fila c’è Pietro Aglieri, poi Salvatore biondino, Nitto Santapaola, Piddu Madonia e Giuseppe Farinella. A parte Biondino, sono tutti uomini di Binu Provenzano.

La decisione deve passare però dal dipartimento amministrazione penitenziaria, dove c’è Gian Carlo Caselli insieme al giovane magistrato Alfonso Sabella. A Sabella quella proposta ricorda la voce del boss, Carlo Greco, rimasta incisa su una microspia.

“La dissociazione è un ottima cosa perché consentirà di evitare il 41 bis, avere sconti di pena ed evitare l’ergastolo e tutto senza rovinare nessuno”.

Caselli e Sabella si oppongono. Tra i favorevoli si segnalano invece Carlo Taormina, futuro sottosegretario agli interni, e Franco Frattini, futuro ministro della funzione pubblica, che denuncia le fughe di notizie che avrebbero fatto saltare l’operazione.

Che però riprende nel novembre 2001. Al posto di Caselli stavolta c’è Giovanni Tinebra, non più capo della procura di Caltanisetta. Sabella viene informato che Salvatore Biondino chiede di poter lavorare in carcere: una scusa per andarsene a zonzo indisturbato e diffondere il seme della dissociazione. Iniziano anche le proteste dei detenuti contro il carcere duro, in testa quelli dell’Ucciardone a Palermo. Sabella blocca la richiesta di Biondino e ne informa Tinebra. Pochi giorni dopo, il suo ufficio viene soppresso dallo stesso Tinebra e al suo posto del magistrato arriva Salvatore Leopardi già stretto collaboratore dell’ex procuratore capo di Caltanisetta.

Solo in seguito Sabella verrà a sapere che Tinebra aveva rilasciato mesi prima un intervista al “Corriere della Sera”, dal titolo “Dissociazione, prima ero contrario, ora no”. L’ex capo della procura nissena aveva manifestato il suo pensiero dopo una lettera inviata dal mafioso Pippo Calò, in carcere, e indirizzata alla Corte d’assise di Caltanisetta. Il cassiere della mafia si dichiarava disposto alla dissociazione.

Anche in questo caso il progetto non va in porto. Ma i boss non demordono, e Pietro Aglieri ci riprova con una lettera a Pier Luigi Vigna e al procuratore palermitano Grasso.

Non è svilendo o mortificando l’identità dei detenuti scrive il 28 marzo 2002,che si potranno fare passi in avanti. Posso immaginare che in tempi di emergenza certe regole siano saltate e non sarà con certi metodi e processi che lo stato laico e democratico riuscirà a dare più sicurezza ai suoi cittadini.

Poi, la richiesta: vogliamo riunirci per discutere e deporre le armi, e in cambio chiediamo indagini più giuste. Che significa due cose: basta con il 41 bis e via alla revisione dei processi. Ottenendole, i boss avrebbero portato a compimento il papello di Riina.

Per la terza volta il piano fallisce, ma a questo punto si alzano altre voci, una fra tutte quella di Leoluca Bagarella, che denuncia un patto tradito.

I detenuti sono stanchi di essere strumentalizzati, umiliati, vessati e usati come merce di scambio dalle varie forze politiche.

Passano cinque giorni, e un gruppo di trentuno mafiosi affida una dichiarazione comune al segretario dei radicali Daniele Capezzone, una lettera che ha come destinatari gli “avvocati parlamentari”.

Dove sono gli avvocati delle regioni meridionali che hanno difeso molti degli imputati di mafia e ora siedono negli scranni del Parlamento, e sono nei posti apicali di molte commissioni preposte a fare queste leggi? Loro erano i primi, quando svolgevano la professione forense, a deprecare più degli altri l’applicazione del 41 bis. Allora svolgevano la professione solo per far cassa... Ora non si preoccupano.

L’elenco degli “avvocati parlamentari” è lungo: Antonio Battaglia, Alleanza nazionale, ex difensore di Bagarella; Enzo Trantino, forza Italia, difensore di Marcello dell’Utri; Nino Mormino, forza Italia, vicepresidente della commissione giustizia, difensore storico della famiglia Madonia; e molti altri ancora. A sorpresa, uno degli avvocati chiamati in causa dai mafiosi si difende accollando tutto al Cavaliere.

La mafia-sostiene l’avvocato Battaglia -è consapevole che un parlamentare non può essere in condizione di poter far cambiare rotta ad un governo, a noi parlamentari a stento ci danno la possibilità di farci approvare qualche emendamento tanto è vero che gran parte dei manifesti elettorali non indicavano il nome del candidato, il candidato era Berlusconi.

Bagarella ha tirato un colpo a sorpresa. I bosso non possono essere consultati tra loro per decidere quella posizione comune. La prima interpretazione che ne danno gli inquirenti è che si tratti di una messa in mora della gestione Provenzano, il quale «se ne fotte dei picciotti» in galera. Alcune microspie vengono collocate nelle celle giuste, ma riportano solo rumore e cariche elettrostatiche perché «impallate» da altre microspie piazzate dal Gom, il Gruppo operativo mobile che opera nelle carceri come un servizio segreto alle dipendenze del Dipartimento amministrazione penitenziaria.

Su ciò che accade dal 2001 nelle carceri c’è un inchiesta aperta della Procura di Roma che vede indagati alti magistrati e agenti. Le indagini registrano tentativi di orientare le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia da parte di “strani personaggi”. Tra gli “avvicinati” c’è il pentito Nino Giuffrè: aveva fatto il nome di politici importanti e parlato dei loro legami con Cosa nostra, e ora era stato “invitato” a cambiare le proprie dichiarazioni.

Per raggiungere l’obbiettivo qualcuno pensa a Vito Ciancimino: lo rivela un intercettazione ambientale del marzo 2002, che riprende un colloquio tra Massimo Ciancimino e l’avvocato tributarista palermitano Gianni Lapis.

Secondo la Procura di Palermo, qualcuno avrebbe provato a utilizzare don Vito per far arrivare a Giuffrè un messaggio chiaro: non parlare di un politico importante, Carlo Vizzini di Forza Italia. Oggi Lapis risulta condannato per aver riciclato una parte del tesoro di don Vito, mentre Vizzini è indagato per una serie di operazioni finanziarie poco trasparenti.

Ma perché Ciancimino viene considerato capace di far pressioni su Giuffrè? Di quali canali benefica per poter svolgere un operazione cosi delicata?

Certo è che il pentimento di Giuffrè agita il sonno di molti. I magistrati vogliono capire se il servizio ispettivo, e in qualche caso alcuni uomini del Gom, abbiano segnalato all’esterno i nomi nativi di chi stava pensando di pentirsi, cosi che si potessero adottare adeguate contromisure. Anche l’ufficio di Pio Pompa, dirigente del Sismi, nel novembre del 2002 redige per il servizio un appunto su Giuffrè, in cui denuncia il tentativo di “orientare” le dichiarazioni di un pentito di Cosa nostra perché servissero da riscontro a quelle lanciate da altri collaboratori di giustizia contro Marcello Dell’Utri.

Stando al Sismi, intorno a Giuffrè si stava organizzando

la verosimile predisposizione di un ulteriore iniziativa mediatico-giudiziaria in pregiudizio del Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, e dell’onorevole Dell’Utri.

Pompa inizia a monitorare una serie di magistrati, tra questi Antonio Ingroia e Nino Di Matteo, ma anche Alfonso Sabella, che aveva fatto fallire due volte il progetto della dissociazione dei mafiosi.

La genesi e la gestione del pentimento di Giuffrè sono degli aspetti chiave dell’inchiesta romana, che punta anche sull’ufficio ispettivo delle carceri, diretto all’epoca dall’ex pm di Caltanissetta Salvatore Leopardi, oggi rinviato a giudizio per rapporti irregolari con un camorrista. L’ufficio, formato da settantuno agenti di polizia penitenziaria più una lunga lista di consulenti, durante il secondo governo Berlusconi aveva il compito di tenere d’occhio i capi mafia detenuti al 41 bis.

Nelle prigioni italiane è stato dunque costituito una sorta di servizio d’intelligence parallelo a quelli ufficiali, dotato di sofisticati macchinari per le intercettazioni telefoniche e ambientali messi a disposizione dal Sisde diretto dal generale Mario Mori. Ascoltato dalla Procura, Mori ha spiegato come la collaborazione con Leopardi e con Giovanni Tinebra sia avvenuta attraverso canali istituzionali. Che cosa abbia fatto esattamente nelle carceri il Gom, non è invece ancora chiaro.

Pio Pompa avrebbe condotto quindi un operazione di depistagli, avendo il compito di segnalare- sulla base di informazioni fasulle o artefatte- rischi di natura giudiziaria per il governo Belusconi, al quale Pompa aveva espresso per iscritto la volontà di essere “fedele e leale”.

 

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