«Cento Passi» di Peppino Impastato
21.05.2013 11:54
La storia di Giuseppe Impastato rappresenta una delle testimonianze più eloquenti, di cosa significhi vivere in un luogo come la Sicilia, se si ama al di sopra di ogni altra cosa la libertà, la giustizia e la propria terra. Combattere la mafia senza veli o paure nella provincia sicula degli anni ’70, conduceva spesso a 2 sole conclusioni: partire o morire.
Peppino non pensa nemmeno una volta di abbandonare la sua Sicilia, e la tragica morte che gli spezza la vita a soli 30 anni, pare l’epilogo di un destino segnato per chi come lui ha affrontato a viso aperto Cosa Nostra. A rendere straordinario il significato racchiuso nella sua condotta invece, sono proprio le origini della famiglia in cui cresce.
Giuseppe Impastato è il primo di due figli di un modesto uomo d’onore, affiliato alla mafia del posto. Sin da ragazzo, abbraccia con passione la causa del socialismo, verso la tutela dei più deboli e contro il capitalismo. Già a 15 anni prende la parola ai comizi, e la sua ideologia di sinistra si scontra con una mafia ancora in odore di repressione contadina. Un carattere e una personalità del genere, entrarono prestissimo in conflitto con il clima famigliare da sempre mafioso, conservatore, e fortemente religioso. Nel 1966 scrive un articolo su di un giornale locale dal titolo «Mafia, una montagna di merda». Uno dei parenti mafiosi dirà al padre: «Se fosse figlio mio farei un fosso e ve lo seppellirei».
La Cinisi dell’epoca era un centro tra i più importanti per lo smistamento della droga. Il boss locale aveva il nome di Gaetano Badalamenti, detto «Tano», legato solidamente alla mafia di Detroit, con solidissimi agganci a figure vicine ai servizi segreti americani, e ovviamente alle lobby politiche democristiane. Egli era uno dei più illustri esponenti di Cosa Nostra, potente trafficante di stupefacenti, e leader dal 1974 della Commissione da pochi anni ricostituitasi. Il temperamento rivoluzionario di Impastato, lacerò le posizioni all’interno della sua famiglia. Al suo fianco la sola madre, Felicia Bartolotta, che dopo una vita di vessazioni e maltrattamenti figlie della «cultura familiare», cercava di frenare i toni del ragazzo temendo per la sua vita. Felicia a riguardo dei duri anni vissuti al fianco del marito ricorda : «Un martirio quello che ho passato. Quando lo sentivo arrivare mi pisciavo addosso, mai una parola dolce, mai uno svago, mai una festa, mai una lira, teneva tutto in mano, mi faceva uscire solo per andare a trovare il boss Tanino Badalamenti e parlare con sua moglie».
Peppino non si fermò, e nonostante le minacce mafiose, attaccò Cosa Nostra in difesa dei contadini che venivano espropriati delle loro terre per la costruzione dell’aeroporto di Palermo, operazione che garantiva all’onorata società guadagni stellari. Lottò al fianco degli operai sfruttati da imprenditori mafiosi e nel 1977, fondò Radio Aut, piccolissima radio locale, dai cui microfoni lanciò trasmissioni di satira miscelata a musica. In una di queste rielaborò una versione del lontano Far West, dove Tano Badalamenti diventava «Tano Seduto» e dove «Mafiopoli o Maficipio», erano le definizioni che attribuiva alla sua città e comune.
Peppino era consapevole dei rischi che correva e quasi certo della sua morte da quando, nel settembre del 1977, rimase privo di protezioni dopo la morte del padre, investito e ucciso da un auto. Nonostante le sue origini, il babbo aveva tentato il possibile per proteggere la vita del figlio, fino a divenire capro espiatorio in prima persona per le sue gesta. Al funerale del genitore, Giuseppe si rifiutò di dare la mano ai parenti mafiosi, provocando una ulteriore offesa non più tollerabile.
Nella primavera del 1978, a pochi giorni dalla sua fine, allestisce una mostra fotografica per illustrare una serie di danni all’ambiente provocati dagli abusi edilizi di strade e case ad opera delle imprese controllate dalla mafia, candidandosi poi alle elezioni comunali. I timori della madre che da mesi ripeteva “spegnere una candela per loro è un gioco da ragazzi e non ci vuole niente“, troveranno conferma nella notte tra l’8 e il 9 maggio 1978.
Peppino fu sequestrato di ritorno dagli studi di Radio Aut, picchiato e torturato. Gli venne legata una cintura fatta di candelotti di dinamite alla vita e fu gettato sui binari della ferrovia Palermo-Trapani, vicino ad una casupola nei pressi della recinzione di quel aeroporto contro la cui costruzione si era battuto. L’esplosione lanciò i resti del suo corpo per un raggio di 300 metri e parzialmente intatte rimasero solo le gambe, parte del viso e le mani. Una morte orribile e identica a quella di cui fu vittima uno zio acquisito nel lontano 1963, quel Cesare Manzella che all’epoca era boss di Cinisi. Una morte che gli aveva sin da bambino turbato i sogni e suscitato una domanda senza risposte: “Ma che cosa ha potuto provare?”.
Un evento che segnò da spartiacque per l’intera sua esistenza, perché all’indomani della vista di un uomo ridotto a brandelli tornò a casa nauseato e disse «Se questa è la mafia, dedicherò tutta la vita a combatterla».
Le prime indagini furono un monumento alla superficialità, all’ottusità e ad una tale incapacità investigativa, che fu impossibile non sospettare una collusione tra forze dell’ordine e Cosa Nostra locale. Non venne eseguita nessuna perizia sul luogo del crimine, e nessuno diede rilievo al sangue ritrovato all’interno della casupola dove Giuseppe era stato seviziato. Secondo gli inquirenti, Peppino era morto ucciso dalla bomba che stava sistemando sui binari, e per dare seguito a questa teoria, perquisirono la sua casa, quella di amici e parenti, la sede della radio, ignorando il suo impegno alla lotta alla mafia, e la lunga serie di nemici che a Cinisi desideravano in modo palese la sua morte. Venne dato credito per molti anni ad una vecchia lettera di Giuseppe ritrovata tra una montagna di appunti e documenti nella sua camera. Impastato in un momento di sconforto della sua inarrestabile lotta alle ingiustizie, sembrava in procinto di mollare tutto, ed il testo lasciava trapelare una possibile intenzione suicida. Non ponendo la minima attenzione al particolare che un uomo in procinto di un gesto così estremo, lascerebbe in evidenza un suo eventuale messaggio di addio, e non sepolto da decine di altri fogli, gli inquirenti si appoggiarono a quella tesi con cieca ostinazione. Tra i pochi resti del povero Peppino poi, le mani vennero recuperate quasi integre: un elemento che strideva con la teoria di una bomba esplosa in mano al presunto attentatore.
Ciò nonostante il trafiletto che sul Corriere della Sera descriveva il fatto, accennava a un «Ultrà di sinistra dilaniato dalla sua bomba». Una linea seguita dalla gran parte degli organi di informazione a conferma di quanto tutti fossero lontani dalla verità, più o meno in buona fede.
Furono gli amici nel corso di «una giornata di indicibile pena», a raccogliere in buste i frammenti del corpo di Peppino ignorati dai carabinieri, a recuperare la pietra sporca del suo sangue con cui fu tramortito. I giorni che condussero al funerale furono trascorsi a Cinisi in un clima di grande tensione, tra illazioni su depistaggi e misteriose perquisizioni. I più di mille attivisti e amici che ne accompagnarono il corteo funebre, mostravano cartelli che urlavano dolore e rabbia («Peppino è stato assassinato dalla mafia»), ma anche la ferma intenzione a non rendere vano il sacrificio di un giovane che entrerà di diritto nelle figure simbolo della lotta alla mafia («Con il coraggio e le idee di Peppino noi continuiamo») .
Dopo le esequie, gli stessi si fermarono dinanzi alla abitazione di «Tano Seduto» per sfidarlo al grido di «Badalamenti Boia». Il risultato di anni di impegno e lavoro instancabile nel raccogliere prove, perizie e testimonianze dei pentiti, ad opera del fratello, degli amici, e di tanti altri volontari unitisi a loro nel tempo, consentì alla costituzione di una Commissione Parlamentare d’Inchiesta che finalmente nel 2000 portò alla luce le omissioni e le lacune delle indagini. Il fratello di Giuseppe, Giovanni Impastato, nel corso della sua deposizione, raccontò di vari episodi dove i carabinieri si vedevano camminare a braccetto con Badalamenti per le vie di Cinisi, e di come fosse oramai impossibile credere alla giustizia dinanzi a simili testimonianze. Non si può non citare tra gli esponenti della magistratura che si occuparono del delitto Impastato quando la pista però si era oramai raffreddata, nomi del calibro del procuratore di Palermo Gaetano Costa, il capo dell’ufficio istruzione Rocco Chinnici e il suo sostituto Antonino Caponnetto. I primi due, come vedremo tra qualche capitolo cadranno vittime della mafia, mentre il terzo è storicamente riconosciuto come uno dei padri adottivi di quella stagione di rinascita dello Stato conosciuta come «l’era del Pool di Palermo», al fianco dei giudici Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Ayala.
Nel 1999 intanto, don Tano (già in carcere da tempo nel New Jersey per traffico di stupefacenti), venne rinviato a giudizio, e nel 2002 fu condannato quale mandante dell’omicidio di Giuseppe Impastato. Proprio mentre il processo era in corso, venne presentato al Festival del Cinema di Venezia il film “I cento passi“, di Marco Tullio Giordana, che narrava della storia di Peppino. Un lavoro straordinario, duro, emozionante, dove un grande Luigi Lo Cascio (allora semisconosciuto al pubblico cinematografico), riportò in vita le gesta del giovane di Cinisi, ponendo in rilievo il coraggio di chi pur vivendo a 100 passi dall’abitazione di Gaetano Badalamenti, non si piegò alle regole della mafia. Il film che vincerà il Leone d’Oro alla rassegna cinematografica, ottenne da Felicia Bartolotta Impastato mamma di Giuseppe, il riconoscimento più importante, quando a commento del film ringraziò tutti per aver riportato in vita il vero Peppino.
L’esempio di questa donna costituisce un altro simbolo della lotta per riportare la verità e la giustizia al ruolo che le competono. Essa ha combattuto per ridare dignità alla memoria del figlio, affinché questa divenisse un motivo di fiducia per le generazioni future. Una testimonianza che rivela il peso delle donne nella società mafiosa. A loro è spesso consegnato il ruolo di silenti veicoli del valore mafioso di generazione in generazione, donne spesso fiere di essere una componente di un sistema che trasmette ai figli gli stessi valori dei padri. Felicia Bartolotta oggi non è più tra noi, ma il suo impegno ha dimostrato al mondo che è possibile per amore dei figli spezzare questa catena, invertire la direzione, contribuendo così alla creazione di tante associazioni che negli anni hanno dato vita ad un movimento antimafia che può e deve essere un motivo di speranza.
Giovanni Impastato da anni viaggia per l’Italia partecipando a conferenze, dibattiti, presentazioni di libri. Una vita che non immaginava e che ha trasformato le sue giornate in occasioni in cui “…conosco persone straordinarie, dove mi arricchisco continuamente, mi carico d’entusiasmo“. Lo stato d’animo muta radicalmente quando fa ritorno nella sua Cinisi. «Quando ritorno a casa, prosegue il fratello di Peppino, mi cadono le braccia».
A conferma di quali barriere culturali rimangano da abbattere, Giovanni ricorda ancora oggi segnato ed emozionato dal dolore che riaffiora, quanto accadde in occasione dei funerali della madre Felicia, scomparsa nel Dicembre del 2004:
«Quando morì mia madre, una persona modesta, umile, che ha avuto il solo torto di spiegare con semplicità la crudeltà di Cosa Nostra, al funerale viene un sacco di gente. Da fuori. Da Cinisi, tranne qualche amico intimo, neanche un cane. Qui Peppino non è stato capito da vivo e non viene capito neanche da morto. Da quando è uscito il film noto che l’ostilità è aumentata».
Tutti noi dobbiamo interrogarci, se al cospetto di una realtà dove per ottenere giustizia si sia atteso oltre 25 anni, al prezzo di sacrifici indicibili e umiliazioni pesantissime, si possa parlare di autentica giustizia.
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