«Cento giorni» per Dalla Chiesa

21.05.2013 12:21

 


Lo Stato cercò di alzare la testa. Occorreva fornire segnali vigorosi per calmierare un’opinione pubblica allarmata, ma soprattutto si richiedeva un inasprimento delle misure antimafia a tutti i livelli. In Sicilia era in corso una vera guerra, spesso contro un nemico non solo invisibile, ma che beneficiava delle protezione di una porzione delle istituzioni stesse. La risposta si concretizzò con la decisione del Presidente del Consiglio Giovanni Spadolini, primo non DC da tempo immemore, e del Ministro degli Interni Rognoni, di inviare a Palermo in veste di prefetto il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa. Egli aveva trascorsi di pregio nella lotta alla mafia, in quanto aveva operato a Corleone ai tempi dell’inizio carriera di Luciano Liggio. La sua popolarità era però recentemente salita alle stelle, per aver guidato con successo la lotta dello Stato contro il terrorismo di estrema sinistra e delle Brigate Rosse. Il suo approccio al difficile e delicato compito che lo attendeva fu chiaro: non era disposto ad intavolare nessun genere di compromesso con qualsiasi forza politica che si rivelasse indulgente verso la mafia. Il trasferimento a Palermo con decorrenza immediata, conduce Dalla Chiesa a ricoprire il ruolo dai primissimi giorni di maggio del 1982.

Sin da allora, il generale attende che lo Stato gli fornisca quei poteri esecutivi speciali per disporre di margini operativi ampi, scollegati dagli iter procedurali standard che rallentavano le scelte in un momento così drammatico. Sarà per il prefetto una attesa vana. Nel frattempo polizia e carabinieri raggiungono finalmente un buon livello di simbiosi: presentano in forma congiunta un rapporto giudiziario con 162 nomi di spicco, e tra questi compare per la prima volta quello del «papa» Michele Greco. Viene inoltre redatta una mappa delle famiglie mafiose alla luce del conflitto interno, suddivise in «perdenti» e «vincenti». Queste ultime appartenevano allo scacchiere legato ai corleonesi Riina e Provenzano. Traspare finalmente la loro strategia tesa ad eliminare deliberatamente ogni oppositore.

L’elemento più incoraggiante è rappresentato dalla condivisa percezione di una breccia che sta aprendosi nel muro di omertà. Coloro che si spingono a giocare la carta del collaboratore di giustizia, una figura che prenderà consistenza maggiore anni dopo, sono rari e isolati, ma le informazioni che provengono dall’allora ancora ombroso alveo mafioso, creano scalpore come nel caso di Giuseppe Di Cristina. Tra le file degli investigatori sul campo inoltre, cresce il numero di coloro che passo dopo passo, acquisisce esperienza, metodo di lavoro, capacità d’interpretare i messaggi non scritti che i codici di comportamento mafiosi rilasciano sul territorio. Come vedremo nelle prossime puntate, il contributo del giudice Falcone nell’imporre svolte epocali ai metodi investigativi nella lotta alla criminalità organizzata sarà determinante.

Il mese di giugno intanto, sarà purtroppo ricordato anche per quella che venne definita come «la strage della circonvallazione». Durante il trasferimento da un carcere all’altro di Palermo, del boss catanese Alfio Ferlito, un commando armato sempre di Kalashnikov, assalta il furgone della polizia penitenziaria. Oltre a Ferlito, rimangono uccisi l’autista del mezzo e i tre agenti di scorta. Trascorrono le settimane e Dalla Chiesa sente attorno a se la stretta di una morsa che lentamente si chiude. Una silente azione di isolamento, che in modo graduale sottrae ossigeno e vigore all’efficacia dei suoi intenti. Nemmeno il mese delle vacanze per eccellenza conduce ad una tregua, e l’11 di agosto Cosa Nostra consuma un’altra tragedia.

A cadere vittima è in questo caso un medico, un uomo di scienza, il professor Paolo Giaccone. Una figura apparentemente lontana da questo mondo, ma Giaccone è ordinario di medicina legale, e si è rifiutato di inquinare una perizia balistica che inchiodava i killer di una strage avvenuta sul finire dell’anno precedente. La sua morte certifica la serietà del professionista, l’onesta dell’uomo. La mafia è un treno di morte, i cui binari impazziti scorrono imprevedibili e attraversano senza preavviso l’esistenza di chiunque. Nessuno può sentirsi al riparo.

«cento giorni» a Palermo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, terminano la sera del 3 settembre 1982, in via Carini. Quelli che in termini tecnici si definiscono «due gruppi di fuoco», composti da almeno una decina di killer a bordo di una Fiat 131 e di una BMW, bloccano la strada all’auto del generale e della moglie Emanuela Setti Carraro. I due coniugi moriranno all’istante. L’autista Domenico Russo che quella sera li seguiva con l’auto di servizio, spirerà in ospedale alcuni giorni dopo. I giorni in cui il generale Dalla Chiesa rimase prefetto di Palermo furono in realtà 126, ma con il titolo di “Cento giorni a Palermo”, il regista Giuseppe Ferrara diresse nel 1984 un discusso film che narrava della vicenda.

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